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L’OSSERVATORE ROMANO
POLITICO RELIGIOSO
GIORNALE QUOTIDIANO
Non praevalebunt
Unicuique suum
Anno CLV n. 201 (47.039)
Città del Vaticano
sabato 5 settembre 2015
.
Nel centenario della facoltà teologica dell’Università cattolica argentina il Papa ricorda il Vaticano
II
e sottolinea il collegamento dinamico fra tradizione ricevuta e realtà concreta
Il fiume vivo
«Ogni tentativo di rompere il rapporto tra la Tradizione ricevuta e la realtà concreta mette in pericolo la
fede del Popolo di Dio». Perché «la tradizione della
Chiesa è il fiume vivo che ci collega alle origini». Lo
ha sottolineato Papa Francesco nel videomessaggio ai
partecipanti al congresso internazionale di teologia,
svoltosi dal 1° al 3 settembre all’Università cattolica
argentina di Buenos Aires. Ricordando che l’incontro
si è tenuto nella duplice ricorrenza del centenario della facoltà teologica e del cinquantesimo della chiusura
del concilio Vaticano II, il Pontefice ha evidenziato
come proprio uno dei contributi principali di quell’assise fu il tentativo di superare il «divorzio tra teologia
e pastorale. Tra fede e vita», addirittura rivoluzionando «lo statuto della teologia». Per questo, ha spiegato, «siamo di fronte a due momenti di forte coscienza
ecclesiale. Cento anni della Facoltà di teologia è celebrare il processo di maturazione di una Chiesa particolare. È celebrare la vita, la storia, la fede del Popolo di Dio che cammina in questa terra. Una fede che
cerca di radicarsi, d’incarnarsi, di rappresentarsi, d’interpretarsi di fronte alla vita del suo popolo e non al
margine». Da qui l’importanza di aver unito le celebrazioni per l’istituzione accademica ai cinquant’anni
dalla chiusura del Vaticano II. Infatti, ha aggiunto il
Papa, «non esiste una Chiesa particolare isolata, che
possa dirsi sola, come se pretendesse di essere padrona e unica interprete della realtà e dell’azione dello
Spirito». Così come «all’opposto, non esiste una
Chiesa universale che dia le spalle, ignori, si disinteressi della realtà locale». Infine il Papa ha individuato
tre caratteristiche del teologo, che dev’essere figlio del
suo popolo, credente e profeta.
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Alla luce
del concilio
È una riflessione importante sulla
realtà della fede e sulla Chiesa il
videomessaggio del Papa per il
centenario della Facoltà di teologia dell’Università cattolica argentina, ricorrenza che coincide con
il cinquantesimo anniversario della conclusione del Vaticano II. E
appunto nella luce del concilio
Bergoglio interviene con nettezza
sul significato e sulla portata della tradizione cristiana.
La memoria — dice il Pontefice
— ci permette di ricordare da dove veniamo: così «ci uniamo ai
tanti che hanno tessuto questa
storia», e si scopre che «il popolo
fedele di Dio non è stato solo»,
ma sempre accompagnato dallo
Spirito.
E
dalla
ricorrenza
dell’istituzione argentina il Papa
prende lo spunto per domande
radicali, che interessano non solo
i cattolici: Chiesa, che dici di te
stessa? Come oggi incarni la tua
fede?
Non esiste una Chiesa particolare isolata — dice il Pontefice —
ma nemmeno esiste una Chiesa
universale che volti le spalle e si
disinteressi della realtà locale:
«La cattolicità esige, richiede questa polarità in tensione tra il particolare e l’universale, tra l’uno e
il molteplice, tra il semplice e il
complesso». Tensione dinamica
che nasce dallo Spirito e dunque
non va annullata, riflettendosi
nella relazione fra «tradizione ricevuta e realtà concreta».
Questa dinamica, caratteristica
delle vicende del cristianesimo
nella storia, fu ben presente negli
anni del concilio, come sottolineava Giovanni XXIII, citato oggi
dal suo successore: «Per la prima
volta nella storia i Padri del Concilio apparterranno, in realtà, a
tutti i popoli e nazioni, e ciascuno recherà contributo di intelligenza e di esperienza, a guarire e
a sanare le cicatrici dei due conflitti, che hanno profondamente
mutato il volto di tutti i paesi».
Una fede radicata nella carne
delle vicende umane, dunque, dove la tradizione è un concetto dinamico, secondo una definizione
di Benedetto XVI ripresa da Francesco: non è infatti — come molti
credono o pretendono — «trasmissione di cose o di parole, una
collezione di cose morte. La tradizione è il fiume vivo che ci collega alle origini, il fiume vivo nel
quale sempre le origini sono presenti». E aggiunge oggi Bergoglio: «Questo fiume irriga diverse
terre, alimenta diverse geografie,
facendo germogliare il meglio di
quella terra, il meglio di quella
cultura. In questo modo, il Vangelo continua a incarnarsi in tutti
gli angoli del mondo, in maniera
sempre nuova».
In perfetta coerenza con i suoi
predecessori Papa Francesco addita poi le tentazioni opposte del
conservatorismo fondamentalista
e dell’apertura indiscriminata a
ogni novità: «Per superare queste
tentazioni bisogna prendere molto sul serio la tradizione della
Chiesa e molto sul serio la realtà»
e metterle tra loro in dialogo.
Teologia e pastorale non sono
dunque realtà opposte o separate,
come opposte non devono essere,
in chi crede, la riflessione e la vita. E in questo — sottolinea il Papa — il concilio «ha in certa misura rivoluzionato lo statuto della
teologia».
Ecco perché il teologo cristiano
deve essere figlio del suo popolo,
uomo di fede — non è teologo chi
«non tenti di sviluppare in se
stesso» gli stessi sentimenti di
Cristo — e profeta. Per cercare
una corrispondenza creatrice con
il nostro tempo.
g.m.v.
Ivo Dulčić, «Piazza con persone. Concilio» (1962-1965)
PAGINA 8
L’Europa cerca una strategia comune mentre cresce il flusso di persone che fuggono dai conflitti
Momento di verità
BRUXELLES, 4. «Qui, a Kos, è il
punto in cui inizia l’Europa, a un
passo dalla guerra. Siamo di fronte a
un problema europeo. Per l’Europa
è arrivato il momento della verità: o
vinciamo tutti assieme o perderemo,
ognuno per conto suo». Ha usato
queste parole, oggi, il vicepresidente
della Commissione europea, Frans
Timmermans, facendo riferimento
alle scioccanti foto che hanno fatto
Storie di rifugiati e migranti
«Ho molti sogni»
KARINA ALARCÓN
A PAGINA
3
il giro del mondo e che ritraggono il
corpo di un bambino siriano morto
trascinato dalle onde sulla spiaggia
turca di Bodrum. Parole che arrivano in un momento cruciale: i rifugiati da ricollocare potrebbero salire
molto presto a 200.000, secondo
l’Unhcr.
Un segnale incoraggiante è giunto
ieri pomeriggio con la notizia di un
accordo raggiunto tra Francia e Germania. Il presidente francese, François Hollande, e il cancelliere tedesco, Angela Merkel, hanno detto di
sostenere la creazione di un meccanismo permanente e obbligatorio di
quote per la ridistribuzione di migranti con diritto di protezione in
quanto richiedenti asilo. «L’Unione
deve agire in modo decisivo e con-
re la richiesta d’asilo
nel Paese in cui arriva), stretta sui rimpatri degli illegali, rafforzamento del sistema di soccorso Frontex e navi più attive
(@Pontifex_it)
nel Mediterraneo. Di
questa linea discuteranno
i
ministri
forme ai suoi valori» hanno dichia- dell’Interno dei ventotto nel summit
rato i due leader. L’asse Merkel-Hol- del 14 settembre. E oggi, in una letlande sembra voler procedere su una tera alle autorità europee diffusa da
linea chiara: condivisione dell’impe- «Le Monde», Hollande e Merkel
gno umanitario con quote obbligatohanno chiesto la creazione immediarie (e sanzioni per chi si rifiuta di
applicarle), riforma dell’asilo e del ta di hot spot, centri per migranti e
regolamento di Dublino (la conven- richiedenti asilo che dovranno essere
zione firmata nel 2013 secondo la «pienamente operativi al massimo
quale chi fugge dalle guerre deve fa- entro la fine dell’anno».
La guerra è madre
di tutte le povertà, una grande
predatrice di vite e di anime
Allo studio una nuova coalizione internazionale che operi in Iraq e Siria
Il piano di Putin per fermare l’Is
DAMASCO, 4. «È prematuro discutere
un diretto coinvolgimento della Russia in azioni militari contro l’Is, tantomeno l’adesione alla coalizione
guidata dagli Stati Uniti: Mosca sta
attualmente considerando altre opzioni». Questa la linea espressa ieri
dal presidente russo, Vladimir Putin,
in merito alla situazione in Iraq e Siria, dove prosegue l’avanzata del cosiddetto Stato islamico (Is). Il leader
del Cremlino ha detto che l’unica
possibile soluzione al terrorismo è la
formazione di una nuova coalizione
internazionale; ne avrebbe già parlato al presidente statunitense, Barack
Obama. «Stiamo facendo passi specifici — ha detto il presidente russo
— e lo stiamo facendo pubblicamen-
Cattolici nella vita pubblica italiana
Un’autobiografia
nazionale
MARCO BELLIZI
A PAGINA
4
te; se siete interessati ai dettagli, vi
posso dire che vogliamo creare una
sorta di coalizione internazionale per
combattere il terrorismo e l’estremismo. Stiamo avendo colloqui con i
nostri partner americani».
Sempre sul piano diplomatico,
l’Iran ha avviato una nuova iniziativa per arrivare a una soluzione politica della crisi. Secondo quanto ha
spiegato il viceministro degli Esteri
iraniano, Hussein Abdel Lihan, ai
media arabi al termine della sua visita di ieri a Damasco, «Assad ha accolto con favore la nostra iniziativa e
noi riteniamo che qualsiasi operazione politica su questa crisi, per riuscire deve tenere in considerazione la
presenza di Assad sia nel futuro del
Paese che nel dialogo con l’opposizione».
Proseguono intanto i combattimenti per fermare i miliziani dell’Is.
Colpi di mortaio a Damasco hanno
causato ieri tre morti e diversi feriti.
Almeno undici civili sono stati uccisi
e 28 feriti ieri nell’esplosione di cinque bombe in aree commerciali a
Baghdad.
Spetta ora alla Commissione Ue
definire la cornice legislativa entro la
quale prendere le decisioni. Non si
esclude l’ipotesi di un vertice straordinario del Consiglio Ue.
Che questa volta qualcosa si stia
muovendo in Europa lo dimostra
anche l’apertura del premier britannico, David Cameron, che ieri per la
prima volta ha detto di voler accogliere un migliaio di migranti in più.
La pressione aumenta. La situazione si fa sempre più complessa. In
Ungheria nelle ultime 24 ore si è registrato l’arrivo di 3313 migranti e
profughi: un nuovo record in una
sola giornata. Come ha riferito la
polizia locale, citata dai media serbi,
si tratta di circa mille arrivi in più rispetto alle 24 ore precedenti. Secondo i responsabili dell’Unhcr, ieri circa 5600 migranti e profughi sono
entrati nella ex-Repubblica Jugoslava di Macedonia dalla vicina Grecia.
Fanno discutere intanto le dichiarazioni del premier ungherese, Viktor Orbán. Ieri a Bruxelles Orbán
ha dichiarato che a partire dal 15 settembre chiuderà gradualmente tutti i
confini magiari e li controllerà con
polizia e soldati. In un editoriale sul
quotidiano tedesco «Frankfurt Allgemeine Zeitung», il premier ungherese ha scritto che «il flusso di migranti in Europa minaccia le radici
cristiane del continente e i Governi
dovrebbero controllare le loro frontiere». Dichiarazioni, queste, che
hanno suscitato numerose critiche da
parte dell’episcopato ungherese. Ieri,
a conclusione dell’assemblea plenaria
dei vescovi dell’Ungheria, l’arcivescovo di Budapest-Esztergom, cardinale Peter Erdő, ha detto che «una
crisi di questa gravità e di queste
proporzioni può essere affrontata solo con politiche statali». La Chiesa
ungherese ha aperto anche una negoziazione con il Governo per mettere a disposizione immobili che
possano servire per ospitare i rifugiati prima che arrivi il freddo.
Sulla speranza cristiana
Lo sguardo verso Dio
Il luogo di un attentato nella città siriana di Latakia (Ap)
HERMANN GEISSLER
A PAGINA
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sabato 5 settembre 2015
Colombiani cercano di attraversare
il fiume Táchira dal lato venezuelano (Ansa)
Deciso il rafforzamento del piano di acquisti di titoli di Stato europei per sostenere la ripresa
Draghi non molla
Ancora presto per dire se il rallentamento della Cina avrà effetti sulla moneta unica
FRANCOFORTE, 4. I rischi di un peggioramento del quadro economico
sono aumentati e per questo il presidente della Bce, Mario Draghi, ha
deciso di aumentare il sostegno alla
ripresa. L’annuncio è stato fatto ieri
al termine della riunione del consiglio direttivo dell’istituto di Francoforte: sono stati rivisti i meccanismi
del piano d’acquisto di titoli (anche
di Stato) da 60 miliardi di euro al
mese, previsto almeno fino al settembre 2016. Il Quantitative Easing
(questo il nome del piano) è stato
modificato elevando dal 25 al 33 per
cento il limite acquistabile da parte
della stessa Bce nell’ambito di una
singola emissione pubblica. In pratica, se prima poteva sottoscrivere fino
a un quarto del valore di un titolo di
Stato, ora può salire a un terzo.
È un chiaro segnale che la situazione economica della zona euro si
sta complicando, non solo per gli effetti della crisi greca, ma anche per
il rallentamento cinese. Draghi ha
chiarito che i casi di acquisto di titoli saranno valutati volta per volta,
per non creare problemi tecnici o
giuridici. Ora — dicono gli analisti —
la Bce ha maggior libertà di acquistare titoli a scadenze più lunghe, il
che modifica anche gli obiettivi nella
strategia di politica economica.
Ma quello di Draghi è anche un
messaggio ai mercati. Con il rafforzamento del Quantitative Easing
Francoforte mostra di credere nella
ripresa, anche se per il momento è
escluso un allargamento del piano ai
titoli greci — si attende l’esito del voto del 20 settembre. Messaggio ben
chiaro alle Borse, che hanno chiuso
in netto rialzo e con l’euro in calo.
Draghi ha infine spiegato in conferenza stampa che nelle ultime settimane a causa degli scossoni creati
dal rallentamento cinese sono
«emersi rinnovati rischi al ribasso su
crescita e inflazione». Tuttavia i banchieri centrali hanno «giudicato prematuro valutare» se questi sviluppi
avranno effetti stabili o se sono solo
di natura transitoria. La ripresa
«continuerà a un tasso più lento delle attese» e anche sul fronte dei
prezzi «è attesa una crescita dell’inflazione inferiore alle attese».
Il presidente della Bce in conferenza stampa (Afp)
Alla frontiera tra Colombia e Venezuela
Trecento bambini
senza genitori
BO GOTÁ, 4. Nella zona di frontiera
tra Venezuela e Colombia, al centro da giorni di una grave crisi diplomatica, quasi trecento bambini
sono rimasti senza genitori, dopo
la decisione di Caracas di chiudere
il confine ed espellere più di 1100
immigrati colombiani.
A denunciarlo sono fonti da Bogotá, precisando che il Governo si
sta occupando del caso. «Stiamo
facendo tutto il possibile con le autorità venezuelane per giungere alla
Dopo gli scossoni in Borsa
Regge il cessate il fuoco tra le truppe ucraine e i separatisti
Le turbolenze
cinesi
al vertice del G20
Donetsk e Lugansk adottano il rublo russo
ANKARA, 4. Doveva essere un meeting prettamente tecnico volto alla
messa a punto di proposte da sottoporre ai leader al vertice di metà novembre ad Antalya. Ma le turbolenze sui mercati delle ultime settimane,
innescate dalle mosse della Banca
del Popolo cinese, e le preoccupazioni crescenti per le conseguenze
sulle economie mondiali del rallentamento di Pechino — e degli altri
Paesi emergenti — fanno della Cina
il “piatto forte” sul tavolo del G20
dei ministri delle Finanze e dei governatori delle banche centrali, che
si apre oggi ad Ankara.
La serie di dati negativi, con il pil
(prodotto interno lordo) inchiodato
a un deludente più sette per cento
per quest’anno (con il sospetto che i
dati reali siano anche inferiori) e, da
ultimo, anche la contrazione dell’attività produttiva annunciata dal Pmi
manifatturiero — l’indice è sceso ad
agosto sotto la soglia dei 50 punti, ai
minimi da tre anni — spaventano
tanto quanto l’incertezza prodotta
dalle ripetute svalutazioni della valuta da parte della Banca centrale cinese. Quest’ultima è intervenuta con
due iniezioni di liquidità da 150 miliardi di yuan ciascuna, scatenando il
panico sui mercati finanziari.
Dopo la crisi greca, che ha dominato i lavori dell’ultimo G20 finanziario di Istanbul, è insomma la bufera cinese al centro dell’attenzione e
dei timori internazionali. E questo
perché la ripresa — ha fatto sapere
l’Fmi in un paper inviato al G20 —
resta moderata: possibili ulteriori ribassi. La priorità per la Cina, spiega
il Fmi nello stesso documento, dovrebbe essere quella di pilotare «una
transizione dolce verso una crescita
più sostenibile, contenendo le vulnerabilità» mentre «la recente correzione del mercato non dovrebbe scoraggiare le autorità a portare avanti
riforme per dare ai meccanismi di
mercato un ruolo decisivo nell’economia». Riforme invocate anche dal
presidente degli Stati Uniti, Barack
Obama, che fa sapere di voler far
pressione sul presidente cinese Xi
Jinping sui temi delle riforme e dei
tassi di cambio. Il segretario al Tesoro americano, Jack Lew, ritiene che
Pechino debba guardare al mercato
e «lasciare che le forze del mercato
muovano lo yuan in alto e non solo
verso il basso».
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KIEV, 4. I separatisti del sud-est
ucraino adottano il rublo russo come unica moneta per tutte le operazioni finanziarie: una mossa annunciata già sei mesi fa dai leader
dei ribelli e che sancisce un ulteriore allontanamento da Kiev.
Finora nei territori controllati dai
miliziani delle autoproclamate repubbliche di Donetsk e Lugansk,
sono stati accettati, oltre al rublo
russo, anche la grivnia ucraina e il
dollaro americano. Ma i ribelli hanno deciso che dal primo settembre
l’unica valuta utilizzabile è quella
di Mosca, che pure si è fortemente
indebolita nell’ultimo anno e mezzo a causa del crollo del prezzo del
greggio e delle sanzioni occidentali
per la crisi ucraina. Del resto, la
grivnia dell’Ucraina in guerra ed
economicamente in ginocchio non
naviga di certo in acque migliori.
Sul fronte sembra per ora più o
meno reggere l’accordo tra le autorità ucraine e i separatisti per far tacere i cannoni a partire dal primo
settembre, giorno in cui è iniziato il
nuovo anno scolastico, per non
mettere in pericolo la vita degli
scolari. Anche se le forze armate di
Kiev denunciano che martedì sono
stati uccisi in un’imboscata dei ribelli due civili mentre sei militari
sono rimasti feriti.
La Russia comunque ha ieri salutato «con soddisfazione la sistema-
tica riduzione delle violazioni della
tregua» nel Donbass dal 28 agosto
e «l’assenza di violazioni dal primo
settembre». E da parte sua anche la
presidenza ucraina ha sottolineato
che, dopo un incontro a Kiev con
Petro Poroshenko, il senatore statunitense Jack Reed ha manifestato la
sua soddisfazione per il «rispetto
del cessate il fuoco» definendolo
«un risultato degli sforzi diplomatici fatti a Berlino e Bruxelles».
La situazione nel Donbass rimane comunque incandescente, così
come i rapporti tra Kiev e Mosca.
Il segretario del Consiglio di sicu-
Allarme
violenza
in Guatemala
Militare dell’esercito di Kiev durante esercitazioni (Afp)
Promessi aiuti
agli agricoltori francesi
PARIGI, 4. Il Governo francese ha
annunciato ieri sera che stanzierà
nuovi aiuti per il settore agricolo,
dopo che Parigi è stata invasa da
più di 1500 trattori per la protesta
degli agricoltori, giunti da tutto il
Paese, per denunciare la crisi nel
settore della carne e dei prodotti
caseari. Il premier, Manuel Valls,
ha spiegato che il settore sta affrontando una crisi profonda e ha
assicurato che la priorità del Governo è aiutare la categoria.
Il piano, annunciato da Valls,
prevede investimenti, finanziati in
parte dall’Unione europea e dalle
regioni, per tre miliardi di euro in
GIOVANNI MARIA VIAN
direttore responsabile
Giuseppe Fiorentino
vicedirettore
Piero Di Domenicantonio
Gaetano Vallini
La Spagna
verso le elezioni
tre anni. L’Esecutivo congelerà
inoltre l’adozione di nuove regole
ambientali e ridurrà le imposte per
gli imprenditori del settore.
Dopo un viaggio durato anche
due giorni, i mezzi degli agricoltori hanno percorso ieri le principali
arterie dell’Île de France, creando
una quasi paralisi del traffico. La
protesta a Parigi fa seguito a
un’estate di tensioni dopo le promesse di aiuti governativi e punta
a mettere pressione sui ministri
dell’Agricoltura dell’Ue che lunedì
si riuniranno per discutere dei problemi dell’industria del bestiame,
colpita dal crollo dei prezzi.
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caporedattore
segretario di redazione
rezza ucraino, Oleksandr Turcinov,
ha chiesto nuovamente armi agli
Stati Uniti, mentre la Russia ha criticato le esercitazioni congiunte delle forze americane e ucraine nel
Mar Nero dichiarando che non aiutano nella ricerca di una soluzione
pacifica al conflitto nel Donbass.
riunificazione delle famiglie. Non è
possibile che ci siano dei bambini
separati dai propri genitori», ha
sottolineato Cristina Plazas, responsabile dell’Istituto colombiano
per il benessere delle famiglie. «È
importante precisare che alcuni dei
bambini i cui diritti sono stati violati sono venezuelani, e cioè nati
appunto in territorio venezuelano»,
ha precisato, ricordando inoltre che
a Cúcuta, la città colombiana vicino alla frontiera, le autorità hanno
aperto undici punti di accoglienza
per ricevere i connazionali espulsi,
tra i quali molti bambini.
A manifestare «la preoccupazione e l’indignazione» del Governo
di Bogotá per quanto sta accadendo alla frontiera è stato anche il
rappresentante colombiano presso
l’Osa, l’Organizzazione degli Stati
americani, Andrés González: tra i
connazionali allontanati dal Venezuela ci sono appunto, ha precisato, «molti bambini, i quali non sono certo paramilitari».
Nel giustificare la propria politica di «espulsione degli stranieri irregolari» nella zona di confine, le
autorità di Caracas hanno sottolineato che l’obiettivo del Governo
Maduro è quello di combattere il
contrabbando, il narcotraffico e i
paramilitari.
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MADRID, 4. Le elezioni in Spagna
si terranno molto probabilmente il
prossimo 20 dicembre: lo ha annunciato il presidente del Governo
spagnolo, Mariano Rajoy, ieri, durante un’intervista all’emittente radiofonica Cope. Si tratta di una
data non definitiva, ha precisato il
leader dei Popolari.
L’annuncio ufficiale verrà dato
nelle prossime settimane, dopo
l’approvazione del bilancio 2016 da
parte del Parlamento. Rajoy ha
quindi confermato che sarà lui il
candidato del partito Popolare per
la guida dell’Esecutivo.
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telefono 06 698 83461, 06 698 84442
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Tipografia Vaticana
Editrice L’Osservatore Romano
don Sergio Pellini S.D.B.
direttore generale
Senza dubbio — sottolineano gli
analisti — il presidente Rajoy si
presenterà al voto potendo contare
sugli ottimi risultati ottenuti
dall’economia spagnola. Risultati
che hanno ricevuto anche l’elogio
del Governo tedesco: «La Spagna
è il miglior esempio che abbiamo
fatto molte cose abbastanza giuste
in Europa» ha detto di recente il
ministro delle Finanze tedesco,
Wolfgang Schäuble. Il Governo di
Rajoy ha assicurato inoltre che il
deficit pubblico verrà contenuto
nei limiti fissati dai Trattati europei senza la necessità di ulteriori
misure di austerità.
Tariffe di abbonamento
Vaticano e Italia: semestrale € 99; annuale € 198
Europa: € 410; $ 605
Africa, Asia, America Latina: € 450; $ 665
America Nord, Oceania: € 500; $ 740
Abbonamenti e diffusione (dalle 8 alle 15.30):
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Necrologie: telefono 06 698 83461, fax 06 698 83675
CITTÀ DEL GUATEMALA, 4. La difficile situazione in Guatemala ha indotto l’Onu a lanciare un allarme
per il rischio di violenze in occasione delle elezioni generali di domenica prossima. Parallelamente agli
sviluppi politici delle ultime ore,
con le dimissioni del presidente,
Otto Pérez, accusato di corruzione
e frode, sono arrivate segnalazioni
di tensioni e possibili disordini.
Il tribunale supremo elettorale
ha classificato ad alto rischio di
violenze settantaquattro comuni in
sei dipartimenti: le aree più sensibili sono nelle regioni settentrionali e
nel nordovest, nella costa meridionale e nel settore sudorientale.
Una folta delegazione dell’Alto
commissariato per i Diritti umani
in Guatemala si recherà in diverse
zone del Paese per verificare il regolare svolgimento delle operazioni
di voto e di scrutinio: lo hanno
confermato alla stampa locale fonti
dell’organismo. Frattanto, il Parlamento ha accettato le dimissioni di
Pérez — indicato come sospetto capo di una rete illegale che aveva
organizzato una “dogana parallela”
nei principali punti di accesso del
Paese, intascando milioni di dollari
da parte di importatori che non volevano pagare tasse e dazi sulle loro merci — e formalizzato l’investitura alla presidenza del suo vice,
Alejandro Maldonado, che dovrà
governare il Paese fino a gennaio
del 2016, quando inizierà il mandato del nuovo capo di Stato, che sarà scelto dai cittadini nelle elezioni
di domenica prossima.
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Banca Carige
Società Cattolica di Assicurazione
Credito Valtellinese
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pagina 3
Unica strada per la pace con i palestinesi
Il centro di Homs
devastato
dai bombardamenti (Ap)
Rivlin rilancia
il dialogo
TEL AVIV, 4. «Lo Stato di Israele
chiede con forza il ritorno ai negoziati diretti con la leadership politica palestinese. Ogni altro modo
non porterà la pace e la tranquillità
nella nostra regione». Lo ha detto
il presidente israeliano Reuven Rivlin, incontrando la comunità
ebraica di Roma. «Il negoziato sia
aperto, con ascolto reciproco e il
rispetto della sicurezza reciproca.
Questa è l’unica strada».
Il presidente Rivlin ha anche
commentato il recente accordo tra
Stati Uniti e Teheran sul dossier
nucleare. Israele è infatti «fortemente preoccupato per l’accordo
sul nucleare iraniano perché un vero cambiamento non può accadere
in un attimo», ma «richiede educazione dei giovani, costruzione di fiducia, un dialogo prolungato». Parole alle quali si è unito anche il
premier Benjamin Netanyahu, che
ieri a Gerusalemme ha incontrato i
funzionari del ministero degli Esteri: «La maggior parte dei cittadini
statunitensi è d’accordo con Israele
sui
pericoli
che
vengono
dall’Iran».
E sulla possibilità di una ripresa
diretta dei negoziati è intervenuto
anche il primo ministro palestinese,
Rami Hamdallah, che ha accusato
il Governo israeliano di «eliminare
la possibilità della soluzione a due
Stati attraverso la sua continua politica di espansione degli insediamenti». In effetti, la questione delle attività edilizie israeliane in Cisgiordania e a Gerusalemme est
rappresenta uno dei punti nodali
del contenzioso con gli israeliani.
Secondo Hamdallah, che ha incontrato a Ramallah una delegazione
parlamentare britannica, le politiche israeliane «minano le possibilità di raggiungere la pace e il sogno
di un contiguo Stato palestinese
nei confini del 1967». Hamdallah
ha chiesto alla comunità internazionale «protezione per il popolo
palestinese».
I negoziati diretti tra israeliani e
palestinesi sono fermi da almeno
due anni.
Colloquio tra Obama e il re saudita
Sanguinosi combattimenti
nello Yemen
Obama e il re saudita alla Casa Bianca (Ap)
SANA’A, 4. Violenti combattimenti
ieri a Taiz tra le truppe fedeli al
presidente yemenita, Abd Rabbo
Mansour Hadi — costretto con il
suo Governo a riparare a Riad — e
le milizie sciite huthi che dall’inizio
dell’anno, dopo aver conquistato la
capitale Sana’a, avanzano nel sud
del Paese. L’intervento in marzo di
una coalizione a guida saudita ha
fermato l’offensiva degli huthi costringendoli a ritirarsi verso nord.
Anche ieri si sono registrati una serie di raid aerei contro obiettivi dei
ribelli huthi nella capitale e a Taiz.
I raid su Sana’a avrebbero colpito
due basi militari. Al momento non
ci sono notizie di vittime.
Nel frattempo c’è attesa per l’incontro di oggi alla Casa Bianca tra
il presidente statunitense, Barack
Obama, e il re saudita Salman, alla
sua prima visita negli Stati Uniti
da quando, a gennaio, è salito al
trono. Ben Rhodes, viceconsigliere
per la Sicurezza nazionale della
Casa Bianca, ha parlato di una «visita importante in un momento importante con molti sviluppi nella
regione in cui abbiamo interessi comuni con l’Arabia Saudita». Nella
fitta agenda dei colloqui anche la
crisi nello Yemen con la «profonda
preoccupazione» degli Stati Uniti
per il peggioramento della situazione umanitaria nel Paese.
Storie e testimonianze di rifugiati e migranti siriani a contatto con la realtà europea
«Ho molti sogni»
da Winterthur
KARINA ALARCÓN
«Ich bin stolz, weil ich kurde». È
questo lo stato di Whatsapp di Meskin Hagi, 27 anni. Ci sono due errori grammaticali in tedesco, ma
l’idea è chiara: «sono orgogliosa di
essere curda». Dopo nove mesi trascorsi in Svizzera, ha superato tre livelli elementari della lingua. È arrivata con sua madre, con due fratelli
minorenni e un altro di 19 anni. Suo
fratello maggiore già si trovava qui e
ha richiesto il visto d’ingresso per i
suoi familiari a motivo del conflitto
bellico in Siria. Sono andati a piedi
fino al confine meridionale con la
Turchia, dove hanno preso un volo
diretto per Zurigo al costo di 550 euro. Un’agenzia svizzera in Turchia si
è occupata di tutte le pratiche.
Non tutti riescono a entrare in
Europa con la stessa fortuna. Dal
2011, quando è scoppiata la guerra
civile in Siria tra le forze armate del
Governo di Bashar Al Assad e i
gruppi ribelli, più di un milione di
siriani sono fuggiti in Libano. Per
questo piccolo Paese l’arrivo precipitoso di rifugiati è un carico pesante.
Il Governo fa tutto il possibile perché i siriani non rimangano, perciò
la situazione è esasperante.
«Dormo su un materasso nel salone in attesa di trovare un appartamento solo per me» racconta Hagi,
perché, a parte suo fratello e sua
madre, è l’unica ad avere lo status F
(Flüchtlinge), quello di rifugiata.
Ciò le consente di ricevere aiuto sociale dal cantone: 700 franchi svizzeri al mese per cibo, trasporti e spese
personali, il pagamento degli studi
di tedesco e dell’assicurazione medica, come pure una quota fino a 1000
franchi al mese per affittare un appartamento.
Sebbene i rifugiati in questo Paese
ricevano i soldi per pagare un affitto, la loro missione praticamente impossibile è di trovare qualcuno che
decida di dare loro un appartamento. Il timore è che il contratto non
duri, che ci vivano più persone di
quelle pattuite e che non conservino
in buono stato l’immobile: sono
questi i principali pregiudizi in gio-
co. Nel frattempo i rifugiati vivono
in case assegnate dallo Stato o in
centri di passaggio dove condividono cucina, salone e servizi igienici.
D all’inizio di quest’anno, in Europa occidentale vivono come profughi
quasi quattro milioni di siriani, di
cui il quaranta per cento è costituito
da bambini al di sotto dei 12 anni.
Dodici milioni di siriani hanno bisogno di aiuto di emergenza secondo
la Acnur, ossia più della metà della
popolazione. Circa 15,5 milioni di
persone si trovano in questa condizione di emergenza in Medio oriente. Nel 2014 Medici senza Frontiere
(Msf) ha registrato 60 milioni di rifugiati e dislocati, la cifra più alta
dalla seconda guerra mondiale.
Il «New York Times» (nel numero del 31 agosto di quest’anno) ha
pubblicato una statistica sul numero
delle richieste di asilo ricevute tra
gennaio e giugno 2015: la Svezia è al
primo posto con 2359 richieste per
ogni 100.000 abitanti, seguita da
Montenegro, Ungheria, Austria,
Svizzera e Norvegia. Germania, Danimarca e Grecia occupano il nono,
decimo e undicesimo posto, rispettivamente, mentre la Spagna è il Paese occidentale con meno richieste di
asilo: appena 45.
In un’intervista alla rete radiotelevisiva svizzera (SRF3), Florian Westphal, direttore della sezione tedesca
di Msf, ha detto che la Ue fa troppo
poco al riguardo, come si vede nelle
tragedie che avvengono nel mar Mediterraneo, dove le persone continuano a morire affogate. «La Ue
commette errori politici fondamentali» poiché proibendo l’accesso in
modo legale e sicuro in Europa alle
persone di regioni in conflitto come
Siria e Afghanistan, «le getta direttamente tra le braccia dei trafficanti di
persone».
I fratelli minorenni di Hagi hanno
ricevuto lo status N. Tuttavia «N qui
è niente», precisa Hagi, poiché in tal
modo i suoi fratelli non possono
spostarsi né cercare lavoro. «Devono
aspettare che li chiami l’avvocato da
Berna e dica loro che cosa fare. Perciò io qui mi sento reclusa».
Prima Meskin viveva in un centro
comunale. Se suo fratello andava a
Presenti a Kabul delegazioni di settanta Paesi e organismi internazionali
Per la prima volta dopo oltre trent’anni
Conferenza economica sull’Afghanistan
Un tamil
leader dell’opposizione nello Sri Lanka
KABUL, 4. Si conclude questa sera
la sesta conferenza di cooperazione
economica regionale sull’Afghanistan che si è aperta ieri a Kabul in
presenza di delegazioni di settanta
Paesi e organismi internazionali,
comprese la Banca mondiale e la
Banca di sviluppo asiatico. L’agenda dell’incontro comprende temi vitali per l’Afghanistan come la cooperazione economica, le telecomunicazioni, i trasporti e la gestione
delle risorse naturali.
Nel suo intervento introduttivo il
viceministro degli Esteri afghano,
Hekmat Khalil Karzai, ha rilevato
che un altro dei temi in discussione
è il rafforzamento del ruolo del settore privato nelle attività economiche fra i Paesi della regione. La
conferenza, ha poi sottolineato, «è
un processo di cooperazione economica regionale importante che è
messo a punto, guidato e gestito
dall’Afghanistan».
In occasione dello svolgimento di
questa conferenza, le misure di sicurezza a Kabul sono state rafforza-
te al massimo e lungo le strade che
portano al centro della capitale afghana sono stati istituiti numerosi
posti di blocco per prevenire azioni
terroristiche da parte dei talebani.
In Afghanistan, infatti, non si
fermano i combattimenti e le azioni
terroristiche da parte degli insorti.
Scontri tra fazioni di talebani favorevoli e contrarie al nuovo leader
designato dopo la morte del mullah
Omar sono avvenuti ieri nella provincia occidentale afghana di Herat, con un bilancio di almeno 18
morti.
Ehsanullah Hayat, portavoce del
Governo provinciale, ha indicato
che almeno dieci insorti sono rimasti feriti negli incidenti cominciati
nell’area di Okal del distretto di
Shindand. Gli scontri avvengono
fra militanti fedeli al nuovo leader
talebano mullah Akhtar Mansour, e
altri che si oppongono alla sua designazione e vorrebbero che la guida fosse assegnata al figlio di
Omar, mullah Yaqub.
Nel frattempo, per la terza volta
in una settimana un folto gruppo
di studentesse e insegnanti di una
scuola femminile afghana sono state
ricoverate in ospedale sempre nella
provincia di Herat con sintomi da
avvelenamento. Altre due volte negli ultimi quattro giorni molte decine di ragazze sono finite in ospedale dopo aver accusato perdita di conoscenza, vertigini, mal di testa e
forti dolori allo stomaco.
Abdul Razaq Ahmadi, responsabile del dipartimento della Pubblica
istruzione di Herat, ha detto in una
conferenza stampa che «è evidente
che i nemici dell’Afghanistan non
possono tollerare lo sviluppo della
provincia di Herat, per cui per la
terza volta in una settimana dobbiamo far fronte a un caso di avvelenamento di studentesse». Nessun
gruppo di ribelli ha finora rivendicato l’operazione, ma secondo gli
analisti esse sono realizzate da
gruppi fondamentalisti islamisti che
si oppongono all’istruzione delle
giovani donne afghane.
COLOMBO, 4. Per la prima volta da
oltre trent’anni, un tamil, Rajavarothayam
Sampanthan,
leader
dell’Alleanza nazionale tamil, è diventato capo dell’opposizione nel
Parlamento dello Sri Lanka, costituito lo scorso primo settembre.
Una mossa interpretata dagli analisti come un gesto di riconciliazione
e di integrazione, l'ultimo in ordine
di tempo da quando lo scorso gennaio Maithripala Sirisena ha strappato la presidenza a Mahinda
Rajapaksa.
Dal 1983, e per ben ventisei anni, il Paese asiatico è stato al centro
di una sanguinosa guerra civile che
ha opposto il movimento autonomista delle Tigri per la liberazione
dell’Eelam tamil all’esercito di Colombo. Il conflitto si concluse nel
maggio del 2009 con la sconfitta
della guerriglia e la morte di migliaia di civili.
L’annuncio della nomina è stato
fatto dal nuovo presidente del Parlamento, Karu Jayasuriya. Ciò è
stato possibile, ha detto Jayasuriya
ai giornalisti, perché i responsabili
della Alleanza per la libertà del popolo unito (Upfa), secondo gruppo
parlamentare per importanza, non
hanno rivendicato la carica.
Nel 1977, un deputato tamil,
Appapillai Amirthalingam, divenne
per la prima volta leader dell’opposizione parlamentare, ma diede subito le dimissioni dopo essersi rifiutato di garantire che non avrebbe mai lottato per uno Stato separato tamil.
Nel nuovo Parlamento, espressione delle elezioni legislative del
17 agosto scorso, vinte dal Partito
nazionale unito (Unp) del primo
ministro, Ranil Wickremasinghe,
l’Unp dispone di centosei seggi
(sette meno della maggioranza assoluta), seguito dall’Upfa, di cui è
esponente di spicco l’ex presidente,
Mahinda Rajapaksa, con novantacinque seggi. Terza forza parlamentare è l’Alleanza nazionale Tamil
(sedici seggi).
trovarla, c’era sempre chi chiamava
la polizia perché controllasse quando doveva andare via, non più tardi
delle 22. «E se io volevo dormire
dalla mia famiglia, accadeva la stessa
cosa. A parte che condividevo la
stanza con un’altra donna, una siriana che era matta» dice mostrando le
sue mani graffiate. «Mi sono stancata e perciò ho chiesto il permesso al
municipio per andarmene da mia
madre».
In futuro Meskin vuole lavorare
come oculista, la sua professione.
Ma, soprattutto, vuole tornare nel
suo Paese e sentirsi libera. Sebbene
in Svizzera viva in condizioni migliori della maggior parte dei rifugiati o immigrati illegali, ha di fronte vari ostacoli per ottenere un passaporto (B) che le consenta di trovare un lavoro, affittare un appartamento e trasferirsi dove vuole senza
dover rendere conto dei suoi spostamenti né avere il marchio incerto di
rifugiata. «Per questo voglio lavorare
in nero (senza contratto ufficiale)
perché se ottengo un lavoro fisso
l’assistenza sociale non mi pagherebbe né il corso di tedesco né l’appartamento. Non m’importa lavorare
persino gratis. Voglio imparare la
lingua e avere un’occupazione» dice
Meskin. Sei mesi fa ha chiesto al comune di trovarle un qualche impiego. «Altri che non volevano lavorare
li hanno già chiamati», dice sorridendo. «Ci andrò di nuovo».
Un’altra cosa che Meskin non capisce è perché i luoghi pubblici non
siano divisi per aree, come le piscine, tra uomini e donne. «Mio fratello piccolo mi prega sempre di entrare in acqua con lui, ma io non posso
perché ci sono altri uomini. Mio fratello maggiore si infastidirebbe se lo
facessi. Non gli piace neppure che
usi pantaloni corti o indumenti senza maniche».
La storia di Meskin è come quella
di tante altre profughe. Una volta
arrivata in Germania, suo marito è
diventato violento: la perseguitava in
tutte le case protette a cui veniva assegnata e perciò è fuggita in Svizzera attraverso la frontiera di Costanza
con l’aiuto di una volontaria di una
chiesa tedesca. Suo figlio maggiore,
diciassettenne, era rimasto volontariamente con il padre per evitare
problemi.
«La mia sorella maggiore è rimasta in Siria con il marito e i figli.
Stanno bene, per ora». Meskin ha
anche un’altra sorella in Germania,
Wafa, che dopo un breve soggiorno
in Svizzera con le sue due figlie minori, Mefa e Merva, è dovuta tornare ad Amburgo. All’inizio sono fuggite non solo per evitare il conflitto,
ma anche per trovare cortisone per
la figlia più piccola, che è malata. In
Siria stava per morire dopo sette
giorni senza questo medicinale.
«Wafa mi ha scritto, dice Meskin al
telefono. Mi ha chiesto di raccontarle che suo figlio ora sta con lei. È
andata dall’avvocato e ci è riuscita.
Siamo felici!». A marzo di quest’anno il Consiglio federale della Svizzera ha deciso di aprire le frontiere ai
rifugiati della Siria. In teoria riceveranno lo status di rifugiati senza
lunghi processi di richiesta di asilo.
L’obiettivo è di dare protezione ad
almeno 3000 persone nei prossimi
tre anni. Inoltre 1000 siriani con parenti già in territorio svizzero, riceveranno un visto umanitario.
«Quando potremo tornare nel nostro Paese? Non lo so. Il mio sogno
è di poter restare in Siria, con il mio
lavoro e la mia famiglia; vivere con
persone buone e in pace, anche se
persone buone s’incontrano pure
qui» dice Meskin. «In realtà ho
molti sogni».
L’OSSERVATORE ROMANO
pagina 4
sabato 5 settembre 2015
Zahi Hawass
È un’identità politica
mai formata compiutamente
la cui crisi è in radice
quella della Chiesa
Vista da un’altra prospettiva
Cattolici nella vita pubblica italiana
Un’autobiografia
nazionale
di MARCO BELLIZI
A colloquio con l’archeologo egiziano Zahi Hawass
Giù le mani
dalla Sfinge di Giza
di ROSSELLA FABIANI
appena arrivato dal Cairo con un volo di linea.
Lo aspettano per portarlo a Cortona dove sabato
sera riceverà il Premio
Cortonantiquaria 2015 perché Zahi
Hawass non è semplicemente un
grande archeologo, ma è anche un
divulgatore instancabile e lo strenuo
difensore di una storia millenaria.
In questa occasione, Hawass presenterà al pubblico italiano in anteprima mondiale il suo ultimo libro
Magia delle Piramidi. Le mie avventure in archeologia per i tipi di Harmakis Edizioni (Montevarchi, 2015,
pagine 256, euro 24). «Un’anteprima italiana che vuole essere un
omaggio al Belpaese. E anche un
invito a venire in Egitto», ci dice
Hawass.
Questo libro dedicato all’area della piana di Giza — dove ha lavorato
per quarant’anni — significa molto
per lui: «Per scriverlo ho impiegato
un anno, durante il quale ho ripercorso con la mente gran parte della
mia vita; è il primo libro che parla
dei nuovi scavi nell’area di Giza.
Ma anche dei rischi che corre il nostro patrimonio a causa dell’urbanizzazione delle aree archeologiche
come pure mette in guardia da scelte scellerate, come quella di organizzare un concerto rock proprio a ridosso della Sfinge, che ha causato
danni non lievi al monumento». Su
quale sia stata la scoperta più sensazionale nella zona delle piramidi,
Hawass non ha dubbi: «La porta
segreta ritrovata all’interno della piramide di Cheope, il villaggio degli
operai che hanno costruito le piramidi e gli scavi sotto la Sfinge».
Lo scorrere del tempo non si è
posato soltanto sulle antiche vestigia: ha trasformato la ricerca e gli
strumenti con cui gli egittologi conducono i loro studi e i loro scavi,
tanto che oggi si parla di archeologia spaziale, vale a dire di rilevamenti archeologici fatti dai satelliti.
«L’uso della tecnologia all’avanguardia ha completamente trasformato la disciplina. Oggi riusciamo a
È
guendo l’esempio di tanti studiosi
appassionati e tenaci, «come l’archeologo americano Mark Lehner
che ha lavorato con me per quarant’anni a Giza e al quale ho voluto dedicare questo mio ultimo libro».
Tra i progetti futuri di Zahi Hawass ci sono lo studio del Dna della
mummia di Nefertiti e la ricerca di
nuovi passaggi segreti dietro la porta ritrovata all’interno della piramide di Cheope. A metà settembre è
invece previsto l’arrivo al Cairo, su
invito del Ministro delle Antichità,
Mamdouh El Damaty, dell’archeologo inglese Nicolas Revees che tanto
ha fatto discutere con la sua recente
scoperta di un passaggio segreto
all’interno della tomba di Tutankhamon.
«La teoria di Revees che dalla
tomba di Tutankhamon ci sia un
passaggio che la colleghi alla tomba
di Nefertiti — chiosa Hawass — non
è supportata da nessuna evidenza.
Revees ha soltanto visto una parete
in 3D e in questo modo si può immaginare qualunque cosa. Howard
Carter che ha scoperto la tomba di
Tutankhamon e vi ha lavorato per
dieci anni, se ci fosse stato un pas-
per la prima volta un presidente voluto dal popolo che lavora per fare
andare avanti il Paese. C’è molta sicurezza ovunque e anche le zone archeologiche sono sicure. La distruzione dei monumenti da parte
dell’Is è un atto barbarico. L’Unesco è debole e non fa niente di concreto per proteggere i monumenti.
Bisognerebbe dar vita a una task
force internazionale che difendesse
il patrimonio. La vicenda dell’archeologo di Palmira è ignobile e
purtroppo tutto il mondo è in silenzio e non fa nulla per salvare persone e antichità. Non credo però che
l’Is possa raggiungere i nostri territori e distruggere le nostre aree archeologiche. Anche i siti come il
monastero di Sant’Antonio nel deserto orientale o lo stesso monastero
di Santa Caterina nel Sinai sono in
sicurezza. L’Egitto è un Paese sicuro. E sono qui in Italia, con il supporto dell’Ente del turismo, anche
come ambasciatore del mio Paese.
Venite a visitare l’Egitto e il nostro
patrimonio culturale».
Di sicuro è un’occasione preziosa
per gli appassionati di egittologia
l’annuncio fatto pochi giorni fa dal
Ministro delle Antichità, Mamdouh
La pesatura delle anime nell’Aldilà
saggio che portava alla tomba di
Nefertiti l’avrebbe di sicuro scoperto. E ancora. Non è possibile che
Nefertiti sia stata sepolta vicino alla
tomba del figlio Tutankhamon. Nefertiti adorava Aton e i sacerdoti di
Amon non avrebbero mai permesso
che fosse sepolta accanto a Tutankhamon, devoto al culto
L’uso della tecnologia all’avanguardia
tebano di Amon.
Mettere poi due tomha completamente trasformato
be insieme è una prala ricerca sul campo
tica che troviamo soltanto dalla XIX dinaOggi riusciamo a compiere indagini
stia e mai durante la
inimmaginabili fino a poco tempo fa
XVIII dinastia di Nefertiti e Tutankhamon. A metà di questo mese abbiamo incompiere delle indagini inimmagivitato Revees a venire in Egitto per
nabili fino a qualche tempo fa; mediscutere insieme la sua ipotesi e vetodologie scientifiche, informatiche
dere che cosa realmente ci sia dietro
e genetiche non possono più essere
questo passaggio della tomba di Tuignorate». Quello che non deve mai
tankhamon».
mancare a chi voglia intraprendere
Dire Zahi Hawass significa dire
lo studio delle antichità «è una
Egitto. E del suo Paese l’archeologo
grande passione e un carattere forte,
ha una visione chiara e fiduciosa nel
capace di fronteggiare i tanti ostacofuturo: «Il nostro patrimonio gode
li che si troveranno davanti», sedi buona salute. Oggi l’Egitto ha
El Damaty che dal 1 dicembre fino
al 7 gennaio del prossimo anno sarà
permesso per la prima volta in assoluto scattare fotografie nel museo
egizio di piazza Tahrir. Non a caso
Hawass rivolge il suo invito all’Italia che da sempre ha rapporti molto
stretti con l’Egitto e che la recente
scoperta dell’Eni del grande giacimento di gas sottomarino rafforza
ancora di più.
«Italia ed Egitto sono insieme da
sempre e mi rende felice che il Governo italiano abbia stanziato dieci
milioni di euro per il restauro del
museo greco-romano di Alessandria.
Anche Cortona non fa che testimoniare questo nostro antico legame».
Perché oltre a celebrare quest’anno
il decennale del Museo dell’Accademia etrusca e della città che conserva un’importante collezione di reperti egiziani, Cortona ha un’antica
relazione che la lega all’Egitto con
gli etruschi che tanto vennero influenzati dalla civiltà egizia come
documenta la mostra «Antiche tracce d’Egitto» allestita a Palazzo Casali, sede del museo. Un antico fil
rouge che oggi la lega ad Hawass.
all’irrilevanza alla centralità. Andata e ritorno».
Nel titolo dell’introduzione generale al librointervista La politica dei cattolici
dal Risorgimento ad oggi. Paolo
Pombeni in dialogo con Michele
Marchi (Roma, Città Nuova,
2015, pagine 205, euro 15) è evidentemente incluso un giudizio.
Anche se il conduttore del colloquio, Marchi, sottolinea con
cortesia come si tratti di una
scelta «volutamente provocatoria», per illustrare schematicamente l’evoluzione del cattolicesimo con l’intento, apprezzabile,
di contribuire alla stesura di
un’«autobiografia nazionale» a
oggi assente.
Al di là di ogni valutazione
sul punto — lo studioso tende
sempre a inquadrare i fatti in
grandi flussi, trascurando, anche
per dovere scientifico, il peso
delle passioni umane e la portata delle scelte individuali nei
momenti cruciali della storia —
questa agile ma accurata conver-
«D
Una storia del rapporto
fra le gerarchie ecclesiastiche
e l’attivismo laicale
in un periodo che ha visto
eventi di portata globale
sazione condotta con lo storico
Paolo Pombeni, qui nella veste
di intervistato, ha senza dubbio
il merito di mettere in rilievo le
grandi direttrici dell’impegno
dei cattolici italiani in politica,
quali si sono dispiegate in un
arco di tempo attraversato da
eventi di portata globale, cercando di ridurre il tanto e l’universale alla sintesi domestica di
quello che una volta era definito
il “Bel Paese”.
Il libro, arricchito da un’utile
cronologia dei fatti, narra in sintesi la storia di un rapporto.
Quello, in primo luogo, fra le
gerarchie ecclesiastiche (Santa
Sede e Conferenza episcopale) e
l’attivismo laicale. Per scelta,
trattandosi appunto di una conversazione ispirata da un intento
chiaramente divulgativo, la storia di questa relazione non è
supportata qui da estesi riferimenti documentali, anche se è
presente una bibliografia utile
per il lettore che fosse interessato a svolgere studi più approfonditi. Le rispettive istanze, le
ragioni che determinarono il clima di questo rapporto, le ricadute del magistero petrino
sull’esperienza dei movimenti
laicali, sono però sintetizzate efficacemente, consentendo di
identificare un percorso, una
storia non dettata dal caso. E
del resto è lo stesso Marchi,
sempre nell’introduzione, a lasciare intendere che, per esempio, la fine dell’unità politica
dei cattolici non sia affatto «avvenuta accidentalmente», come
più spesso si è portati a considerare. Certo — e Pombeni, forse
inconsapevolmente, suffraga tale
impressione nelle sue risposte,
certamente condizionate dalla
necessità della sintesi — la politica dei cattolici in Italia appare,
alla luce di questa conversazio-
ne, più definita per sottrazione
che frutto di una reale elaborazione programmatica. In poche
parole, una reazione alle necessità contingenti. È così nella stagione del non expedit, strumentale, ricorda Pombeni, alle rivendicazioni legate alla “questione
romana”. Così al momento della
nascita dei movimenti socialisti
e comunisti e poi del regime fascista, con l’esperienza del popolarismo sturziano prima e del
centrismo degasperiano post
Lo spartiacque
è l’assassinio di Aldo Moro
e la fine della stagione
del compromesso storico
bellico poi. Così appare anche
nella risposta alla modernità e
alle sfide del Vaticano II, con la
Democrazia cristiana obbligata
ad affrontare la questione del
collateralismo e del «dissenso
cattolico». E ancora appare definita per sottrazione dopo l’esperienza traumatica del referendum sul divorzio del 1974 e soprattutto alla fine della cosiddetta “Seconda Repubblica” (e qui
sembra almeno ingeneroso definire «cosmetico», come fa Marchi, il tentativo di Mino Martinazzoli di una riforma del suo
partito alle prese con la tempesta di Tangentopoli). In quel
momento in particolare, afferma
Pombeni, «il sospetto è che il
sistema cattolico, cioè tanto la
Chiesa ufficiale quanto i vari
movimenti cattolici, per tacere
della Dc», si scoprissero «incapaci di quella guida morale della società che pure avevano affermato in altre circostanze
drammatiche».
Ancora più per sottrazione
appare definirsi la politica dei
cattolici in Italia con l’avvento
di Silvio Berlusconi, la diaspora
cattolica e l’illusione «che il
nuovo leader, che era capace di
tenere in pugno una massa di
consenso in sé scarsamente omogenea ma molto rilevante, potesse comunque diventare, opportunamente ispirato, uno strumento della ricostruzione “paracattolica”». È la storia, dunque,
di una identità mai formata
compiutamente. Tanto che, sembra emergere dal libro, la crisi
dell’unità politica dei cattolici è
in fondo solo la crisi della Chiesa vista appunto dalla prospettiva del rapporto con la politica.
C’è però, come sembra emergere in questo libro intervista —
che non a caso in copertina presenta un’elaborazione della foto
della Renault 5 fatta ritrovare
dalle Brigate rosse in via Caetani il 9 maggio 1978 — un momento che fa da
spartiacque, almeno
nella storia più recente della politica
dei cattolici in Italia. La morte dell’allora presidente della
Dc, Aldo Moro, per
opera dei terroristi,
segna la fine dell’ultimo tentativo, almeno fino ai giorni nostri, di
un’operazione programmatica di
ampio respiro, quella del compromesso storico e della solidarietà nazionale, dopo la quale ci
saranno solo alcuni inefficaci
tentativi di rifondazione del cattolicesimo politico italiano, dalla
leadership democristiana di Ciriaco De Mita fino all’esperienza
del progetto volto a salvaguardare l’unità culturale dei cattolici, a partire dal convegno ecclesiale di Palermo del 1995.
Qui c’è uno dei passaggi più
problematici del libro, quello relativo all’illusione dei vertici ecclesiastici che il tentativo di «inquadramento della modernità
entro una cornice di comprensione religiosa» potesse essere in
grado di rimodulare i risultati e
i successi del concilio Vaticano
II «a fronte delle inquietudini
del tardo XX secolo». In realtà,
spiega Pombeni, «si trattava di
una missione impossibile, perché avrebbe richiesto o un radicalismo profetico, che era lontano dagli approdi vaticani di
quegli anni, o la capacità di
un’umile condivisione delle angosce del presente senza presunzione di avere chiavi di soluzione immediate, cioè quell’atteggiamento che si sarebbe visto
all’opera solo con Papa Francesco». Ma, chiaramente, questa è
un’altra storia. Ancora da scrivere.
Aldo Moro
L’OSSERVATORE ROMANO
sabato 5 settembre 2015
pagina 5
Sulla via di Santiago
Newman apprezza
il progresso e i mezzi del mondo
ma mette in guardia
davanti allo spirito mondano
Radici
del nostro
mondo
di GIOVANNI ZAVATTA
Sulla speranza cristiana
Lo sguardo verso Dio
di HERMANN GEISSLER
Nel primo dei discorsi dopo la
conversione, intitolato La salvezza
degli ascoltatori come motivo del predicatore, Newman cerca di immedesimarsi nei pensieri degli abitanti di Birmingham, che ancora
non conoscono né lui né i suoi
confratelli dell’Oratorio, e di rispondere alle domande che, secondo lui, portano probabilmente
nei loro cuori: cosa spinge loro (i
membri di questa nuova comunità) a venire qui? Cosa vogliono?
Cosa predicano? Cosa promettono? Newman sa che non è semplice rispondere a queste domande
fondamentali. Egli apprezza il
progresso e i mezzi del mondo,
ma mette in guardia davanti allo
spirito del mondo. A che cosa mi-
ra lo spirito del mondo? Secondo
Newman, mira alla buona fama,
all’influenza, al potere, alla ricchezza, al prestigio; talvolta al superamento dei mali terreni come,
a esempio, l’ignoranza, la malattia,
la povertà. Una persona che nasce
in questo mondo, e viene educato
secondo i principi di questo mondo, può imparare molte cose, acquisire buone abitudini, formare
proprie convinzioni. Ma già in
giovane età cade facilmente nella
tentazione di adeguarsi completamente allo spirito del mondo e di
coltivare interessi puramente mondani. E se questa persona diventa
adulta, esercita una professione e
gioca il suo ruolo sulla scena del
mondo, con gli anni crescono i
suoi rapporti con gli altri, acquisisce una propria fama e un suo in-
flusso nella società: una fama e un
influsso che appartengono a una
persona ritenuta saggia, prudente
e abile. E il mondo le esprime apprezzamento e lode.
Il problema di una tale persona
consiste nel fatto che non pensa
né a Dio né all’eternità. «Cosa dire della sua anima? Della sua anima?», domanda Newman. «Oh, la
sua anima; l’aveva dimenticato».
E aveva dimenticato che la sua vita terrena avrà una fine e che
l’aspetta quella eterna. Questa è,
secondo
Newman,
la
storia
dell’uomo per cui il Vangelo non
è diventato una realtà e in cui il
buon seme non ha messo radici.
Questa è la storia dell’uomo mondano, che è in grave pericolo di
perdere la vera vita perché vive
senza Dio e quindi senza speran-
za. A questo punto Newman svela
ai suoi ascoltatori il motivo della
sua predicazione: «È da meravigliarsi che ci rivolgiamo a una tale
popolazione, per la quale Cristo è
morto, cercando di convertirla a
Lui e alla sua Chiesa? [...] Esiste
uno stimolo più forte per la predicazione della convinzione certa
che si tratta dell’annuncio della
verità? Cosa ci spinge di più a impegnarci per la conversione delle
anime che la consapevolezza che
sono attualmente nell’errore e nel
pericolo? [...] Veniamo da voi come servitori di quella straordinaria
grazia di Dio di cui avete bisogno;
veniamo da voi perché abbiamo
ricevuto da Dio stesso una grande
grazia e sentiamo il desiderio di
rendervi partecipi della nostra
gioia; sta scritto infatti: “Gratuita-
Sulla Civiltà cattolica
Alla vigilia del sinodo
Junípero Serra
e i santi
missionari
Riflessioni lungo un cammino
È dedicato alle figure di Angela
da Foligno, Pietro Favre, Giuseppe de Anchieta, santa Maria
dell’Incarnazione, Francesco de
Laval, san Giuseppe Vaz e infine
Junípero Serra, che Papa Francesco canonizzerà durante il prossimo viaggio negli Stati Uniti, l’articolo, scritto da Diego Fares, con
cui si apre l’ultimo numero della
Civiltà Cattolica, in uscita in questi giorni. Si tratta di «santi evangelizzatori di popoli», per i quali,
come ricordato da Papa Francesco
durante il volo per Manila il 15
gennaio scorso, è stato usato il
metodo della «canonizzazione
equipollente», ovvero il culto precettivamente esteso dal Pontefice
per i servi di Dio non ancora canonizzati.
«La spiritualità e la teologia
dell’Evangelii gaudium e della
Laudato si’ — scrive a conclusione
del suo articolo Fares — trovano
ispirazione in santi e sante come
questi, evangelizzatori di popoli,
con un Vangelo testimoniato con
la loro stessa vita. Sono santi camminatori, santi gioiosi, santi comunicativi, che escono, che cercano,
che vanno… non sotto la spinta
del loro carattere soggettivo, né
per un incarico divino unilaterale,
ma perché, alzando lo sguardo —
come il Signore nella sera della
moltiplicazione dei pani — hanno
visto folle di popoli che vagano
come pecore senza pastore e si sono commossi nel sentire l’amore
del Buon Pastore che ha dato la
vita per quelle pecore, che ne sono ignare». Il «volto concreto»
dei popoli a cui sono inviati, si
legge ancora, «insieme con i loro
paesaggi, la flora e la fauna, attira
i santi tanto quanto li spinge il
mandato del Signore e del suo
Spirito. È zelo per “l’unico gregge”, presente misteriosamente in
quelle “altre pecore” che il Signore sognava di andare a cercare.
Come dice Papa Francesco: “Il
Vangelo è lievito che fermenta tutta la massa, e città che brilla
sull’alto del monte illuminando
tutti i popoli” (Evangelii gaudium,
237), aiutando a stabilire “una sana relazione col creato” (Laudato
si’, 218)».
mente avete ricevuto, gratuitamente date” (Matteo, 10, 8)».
John Henry Newman, che sin
da giovane fu toccato dalla realtà
affascinante di Dio e venne guidato dalla luce gentile della sua
provvidenza, non può tacere sulla
grazia ricevuta. Deve rendere testimonianza dell’invisibile amore di
Dio, che, secondo lui, è più reale
della realtà visibile, deve rendere
testimonianza della grande speranza che riempie il suo cuore. Ha
sperimentato la forza della verità
che Benedetto XVI ha espresso meravigliosamente con queste parole:
«La vera, grande speranza dell’uomo, che resiste nonostante tutte le
delusioni, può essere solo Dio — il
Dio che ci ha amati e ci ama tuttora “sino alla fine”, “fino al pieno
compimento” (cfr. Giovanni, 13, 1 e
19, 30). Chi viene toccato dall’amore comincia a intuire che cosa propriamente sarebbe “vita”.
Comincia a intuire che cosa vuole
dire la parola di speranza che abbiamo incontrato nel rito del Battesimo: dalla fede aspetto la “vita
eterna” — la vita vera che, interamente e senza minacce, in tutta la
sua pienezza è semplicemente vita» (Spe salvi, n. 27).
di ANTONIO SPADARO
A giudizio di Papa Francesco, il
«processo sinodale» aperto dovrà
sempre di più plasmare la vita della
Chiesa (cfr. Evangelii gaudium 32;
244; 246). Papa Francesco lo aveva
già annunciato chiaramente nell’intervista che ha concesso a «La Civiltà Cattolica» — pubblicata il 19 settembre 2013 — con queste parole:
«Si deve camminare insieme: la gente, i vescovi e il Papa. La sinodalità
va vissuta a vari livelli. Forse è il
tempo di mutare la metodologia del
sinodo, perché quella attuale mi
sembra statica».
Il presente volume serve come
materia per camminare insieme. Le
riflessioni proposte ai lettori e alle
lettrici hanno in comune una visione
della teologia che è espressione di
una Chiesa «ospedale da campo»,
che vive la sua missione di salvezza
e guarigione nel mondo. Ogni autore ha espresso con parrēsía il frutto
della propria ricerca che ha costituito, nella quasi totalità, il tessuto vivo e condiviso de «La Civiltà Cattolica», rivista fondata nel 1850 e dunque espressione di una lunga tradizione. Altra caratteristica del volume
— che è propria della rivista — consiste nel fatto che tutti i saggi portano
la firma di un gesuita.
Il nostro «discutere» non vuole
necessariamente «mettere in discussione», ma aprire uno spazio ampio
di approfondimento teso a comprendere meglio. Il Vangelo non si cambia, piuttosto ci chiediamo: abbiamo
già scoperto tutto? Su questa strada
aperta di comprensione ci sono anche tentazioni, alle quali il Papa ha
fatto riferimento alla fine del sinodo. Esse sono quella dell’irrigidimento ostile dentro la legge e ciò
che conosciamo, che ci impedisce di
capire che abbiamo ancora da imparare; quella di una misericordia buonista che fascia le ferite senza prima
curarle e medicarle; quella di trasformare la pietra in pane per rompere un digiuno lungo e pesante,
ma anche quella di trasformare il
pane in pietra da scagliare contro i
peccatori e i deboli. Esiste anche la
tentazione di scendere dalla croce,
per piegarsi allo spirito mondano,
invece di purificarlo e piegarlo allo
Spirito di Dio. E infine la tentazio-
Ai fatebenefratelli
il premio
Principessa
delle Asturie
ne di considerarsi proprietari e padroni della fede o, dall’altra parte,
di trascurare la realtà utilizzando un
linguaggio per dire tante cose, ma
in definitiva per non dire niente.
La luce del cammino della Chiesa
— lungo il quale le tentazioni citate
non mancano — deve rimanere Cristo servo, che vuole una «Chiesa
che non ha paura di mangiare e di
bere con le prostitute e i pubblicani». Questo ha confermato il Mes-
Ospedale
da campo
Pubblichiamo uno stralcio
della prefazione scritta dal
direttore della Civiltà Cattolica
per presentare il volume La
famiglia, ospedale da campo
(Editrice Queriniana, Brescia,
2015, pagine 304, euro 22), che
raccoglie articoli realizzati da
vari autori del quindicinale dei
gesuiti italiani. Nei diversi
interventi si affrontano i temi
caldi del dibattito sulla
famiglia, nell’ottica di fornire
un contributo qualificato in
vista del prossimo sinodo.
saggio della assemblea generale
straordinaria del sinodo a tutte le famiglie: «Cristo ha voluto che la sua
Chiesa fosse una casa con la porta
sempre aperta nell’accoglienza, senza escludere nessuno». E questo ha
confermato la stessa Relatio Synodi
al n.11, che è forse il cuore più evangelico di questo testo, esente da timidezze: occorre accogliere le persone con la loro esistenza concreta, saperne sostenere la ricerca, incoraggiare il desiderio di Dio e la volontà
di sentirsi pienamente parte della
Chiesa anche in chi ha sperimentato
il fallimento o si trova nelle situazioni più disparate. Il messaggio cristiano ha sempre in sé la realtà e la
dinamica della misericordia e della
verità, che in Cristo convergono.
Metto dunque il presente volume
nelle mani del lettore, ribadendo il
motivo per cui è stato pensato: esso
è un contributo alla riflessione personale in occasione di un processo
sinodale che ha vissuto già una prima tappa straordinaria, che all’uscita
di questa raccolta si appresterà a vivere una seconda tappa, ma che poi
proseguirà nel tempo, illuminato
dall’anno santo della misericordia.
Potremmo dire di aver raggiunto il
nostro obiettivo se queste pagine
aiuteranno il lettore a pensare e a
maturate — anche dialetticamente —
una propria visione, nutrita dalla riflessione e dalla preghiera personale.
OVIED O, 4. Per la sua esemplare
opera assistenziale portata avanti
da oltre cinque secoli, in particolare per il servizio svolto di recente
dai centri in Liberia e in Sierra
Leone durante il dilagare dell’epidemia di ebola, che ha provocato
nell’ultimo anno la morte di diciotto confratelli e collaboratori
nel loro lavoro accanto ai malati: è
la motivazione con la quale l’O rdine ospedaliero di San Giovanni
di Dio (fatebenefratelli) ha ricevuto mercoledì scorso a Oviedo, in
Spagna, il prestigioso premio
Princesa de Asturias de la Concordia 2015. Si tratta di uno degli otto riconoscimenti internazionali
che la fondazione Principessa delle Asturie assegna ogni anno, dal
1981, per meriti in ambito tecnico,
scientifico, culturale e umano. La
scelta è ricaduta sui fatebenefratelli, oggi presenti in più di cinquanta Paesi, la cui opera si concentra
su situazioni difficili quali appunto l’epidemia di ebola, la crisi migratoria e, in generale, la tutela
delle persone più svantaggiate e a
rischio di esclusione. I candidati
erano ventisette, di ventisei diverse
nazionalità. L’Ordine gestisce più
di quattrocento fra centri, ospedali, servizi sociosanitari, e assiste
circa ventisette milioni di persone.
«È un premio — ha commentato il
priore generale, fra Jesús Etayo
Arrondo — che appartiene alle
persone che frequentano la nostra
istituzione nel mondo. Molti di
loro sono a rischio di esclusione
sociale, con un elevato livello di
vulnerabilità e tra essi ci sono malati, non autosufficienti, senza fissa dimora, immigrati, persone con
disabilità e anziani». Il premio
consiste in una scultura di Joan
Miró, in 50.000 euro in contanti,
un diploma e un distintivo.
Il settimanale spagnolo «Vida
Nueva» lo ha definito il primo
pellegrinaggio interreligioso della
storia. Si concluderà domenica 6
settembre, dopo centosette chilometri, ed è stato intrapreso da circa centoventi fedeli cattolici,
ebrei, buddisti, musulmani, bahai
e induisti, lungo il cosiddetto
«Cammino francese verso Santiago de Compostela». Partito il 30
agosto con lo slogan Un mondo
differente è possibile, il pellegrinaggio — promosso da molteplici organismi delle religioni partecipanti — cerca di mostrare alla società
che «le diverse vite spirituali sono
un segno chiaro di dialogo, convivenza e sviluppo, dove le differenti religioni non separano ma
uniscono». L’obiettivo è quindi
«superare le frontiere delle diverse confessioni, aiutarsi reciprocamente nel rinnovamento spirituale, dando al mondo un messaggio
chiaro di pace e di cambiamento».
I partecipanti sono partiti dal
monastero di Santa María de
Carbajal, a León, e hanno poi intrapreso un percorso a piedi scandito da sei tappe che li condurrà
(passando per Astorga, Ponferrada, Villafranca del Bierzo, Sarria,
Portomarín, Melide e Arzúa) fino
a Santiago de Compostela. Lungo il tragitto, varie attività, momenti di celebrazione, di riposo e
di silenzio, rispettando sempre i
tempi di preghiera di ciascuna fede. Non semplicemente un evento
— sottolineano gli organizzatori —
ma il «punto di origine per un
nuovo processo di incontro interreligioso».
Il Camino Francés in realtà comincia molto prima, a Saint-JeanPied-de-Port, sul versante francese dei Pirenei, ed è lungo complessivamente settecentosettanta
chilometri. Il fascino di questo
pellegrinaggio, «la sua fama, la
sua capacità di attrarre viaggiatori
grazie alla combinazione di bellezza e spiritualità, non cessa di
conquistare nuovi territori», scrive
Guillermo Altares su «El País» di
giovedì 3 settembre, ricordando
che l’ambasciatore giapponese in
Spagna, Kazuhiko Koshikawa, ha
appena firmato con il presidente
della Xunta de Galicia, Alberto
Núñez Feijóo, un accordo per gemellare la Ruta Jacobea (il tragitto compreso fra Oviedo e Santiago de Compostela che, a Melide,
si unisce al Camino Francés) con
un pellegrinaggio buddista e
shintoista nell’isola di Shikoku, lo
Shikoku-Henro. Va ricordato che
anche il Giappone possiede una
serie di vie di pellegrinaggio, il
Kumano Kodō, nella penisola di
Kii, considerato dall’Unesco patrimonio dell’umanità. Ma adesso
vuole approfittare della grande
capacità di attrazione rappresentata da Santiago de Compostela
(da quando, nel nono secolo, venne scoperta lì la tomba dell’apostolo Giacomo il Maggiore) per
diffondere una testimonianza di
fede che oltrepassa le frontiere.
Sul Camino de Santiago film e
libri. Nel 2010 la pellicola The
Way, scritta e diretta da Emilio
Estevez, ha attratto su quel sentiero migliaia di viaggiatori statunitensi. Vi ha dedicato un romanzo il brasiliano Paulo Coelho, un
volume il francese Jean-Christophe Rufin, un racconto di viaggio
il tedesco Hape Kerkeling. E il
celebre storico e medievalista
francese Jacques Le Goff ne parla
in modo approfondito nel libro
L’Europe est-elle née au Moyen
Âge? (2003), spiegando il ruolo
cruciale che il pellegrinaggio ha
avuto nella costruzione dell’Europa. Altares, nell’articolo, cita una
delle ultime interviste di Le Goff
nella quale sottolineò che «la rete
ecclesiastica, con i suoi vescovadi,
monasteri, strutturò il continente
da nord a sud». Radici europee,
del mondo, si incontrano ovunque, qua e là, lungo il suo suggestivo itinerario e la “ricchezza”
del Medioevo forse sarebbe stata
monca senza il Cammino di Santiago, oggi trasformato in una
strada planetaria, in un «marchio
globale registrato», come titola il
quotidiano spagnolo.
L’OSSERVATORE ROMANO
pagina 6
sabato 5 settembre 2015
Dal Wcc un incoraggiamento a ridurre l’utilizzo dei combustibili fossili
Scelte etiche
e più convenienti
Manifestazione in Orissa dei sopravvissuti alle violenze del 2008
Sette anni dopo
in cerca di giustizia
BHUBANESWAR, 4. Oltre 5.000 cristiani delle minoranze dalit e adivasi
sono scesi nei giorni scorsi per le
strade di Raikia, nel distretto di
Kandhamal (Orissa), chiedendo che
sia fatta giustizia e che ritorni la pace e l’armonia, a sette anni di distanza dall’ondata di violenza consumata ai danni dei cristiani. La
manifestazione è stata organizzata
dall’associazione Kandhamal Nyaya
Shanti O Sadbhabana Samaj, che
riunisce i sopravvissuti delle violenze e i loro famigliari.
Quanto accaduto nel 2008 rappresenta una pagina ancora aperta.
Secondo Mani Shankar Aiyar, ex
ministro del Governo centrale, dimenticare quello che è accaduto
«sarebbe un crimine» e dunque
«giustizia deve essere fatta». Alcuni
leader politici dell’opposizione hanno criticato il Bjp (Bharatiya Janata
Party) sostenendo che il partito
«punisce persone innocenti, invece
di assicurare i criminali alla giustizia».
Sembra dunque essere lontana la
verità riguardo alle circostanze e ai
moventi che portarono ai massacri
del 2008. Quel che appare sicuro è
che tutto ebbe inizio a partire dalla
morte di Laxamananda Saraswati,
leader del Vishwa Hindu Parishad
(Vhp, gruppo ultranazionalista indù), ucciso il 23 agosto da un grup-
Governatorato
della Città
del Vaticano
Ufficio delle poste e del telegrafo
Annullo postale speciale
in occasione dell’emissione
del foglietto filatelico
«I viaggi
di Papa Francesco
nel mondo — Anno 2014
(Terra Santa)»
(2 settembre 2015)
In occasione dell’emissione
congiunta con Israele del foglietto filatelico «I viaggi di
Papa Francesco nel mondo
— Anno 2014 (Terra Santa)»,
le Poste Vaticane porranno
in uso uno speciale annullo
del quale si riproduce l’impronta:
Nel bozzetto è riprodotta
una vista della Basilica del
Santo Sepolcro di Gerusalemme, visitata dal Santo
Padre Francesco il 25 maggio 2014.
Completano l’annullo le
scritte: «CITTÀ DEL VATICANO — ISRAELE», «PAPA FRANCESCO
IN
TERRASANTA»,
«POSTE VATICANE» e «DIE
EMISSIONIS 2. IX . 2015».
Il bozzetto è stato realizzato dall’Ufficio Filatelico e
Numismatico.
Il materiale filatelico da
obliterare dovrà pervenire
all’Ufficio Obliterazioni delle Poste Vaticane entro il 3
ottobre 2015.
po maoista. Nonostante i guerriglieri ammisero subito la loro responsabilità, i radicali indù nei giorni seguenti scaricarono la colpa sui cristiani, da tempo criticati dal guru
per il loro impegno sociale a favore
di tribali e dalit (fuori casta) e accusati — insieme a vescovi, sacerdoti e
suore — di fare proselitismo.
Aiyar ha testimoniato quello che
lui stesso ha vissuto durante quei
drammatici giorni: «In qualità di
ministro del Governo centrale, visitavo queste bellissime terre. Ora
torno qui dopo i massacri e provo
profondo dolore. Qui vivevano in
pace diverse religioni e caste. Ma
all’improvviso tantissime persone furono uccise o costrette alla fuga; case e chiese furono distrutte, donne
stuprate o molestate. Ancora oggi
molti sopravvissuti non sono riusciti
a fare ritorno nelle proprie abitazioni».
L’associazione Kandhamal Nyaya
Shanti O Sadbhabana Samaj stima
che almeno diecimila bambini siano
stati costretti ad abbandonare gli
studi. Inoltre, molte minorenni sono
state vendute come schiave o come
domestiche; la maggior parte di loro
ha subìto violenze dai datori di lavoro, che le hanno costrette a non
denunciare gli abusi. Tra coloro che
hanno subìto la violenza dei persecutori anche padre Thomas Chellan,
direttore del centro pastorale Divyiajyoti, e suor Meena Barwa, che
era con lui al momento dell’aggressione. Entrambi sono ancora in vita,
a differenza di padre Bernard Digal,
morto in ospedale dopo mesi di sofferenze.
Secondo l’ex ministro, «il Bjp
non rappresenta la religione indù.
Rappresenta invece la politica di
odio in nome della religione». E
questo allontana la verità. Il riferimento è ai sette innocenti condannati all’ergastolo per l’omicidio del
guru Laxmanananda dopo una serie
di rinvii e processi sulla cui legalità
si sono avanzati molti dubbi. Oltretutto, afferma l’avvocato Dibakar
Parichha, che segue le azioni legali
delle vittime, «le proprietà dei cristiani hanno subito danni per un
valore di novanta crore (dodici milioni di euro), ma le vittime hanno
avuto risarcimenti solo per un totale
di settanta lakh (circa novantaquattromila euro)». Ajaya Kumar Singh,
attivista del Kandhamal Nyaya
Shanti O Sadbhabana Samaj, che
ha presieduto la manifestazione, ha
sottolineato che «la pace non è assenza di violenza, ma vivere liberi
dalla paura e dall’insicurezza. Abbiamo diritto all’uguaglianza, alla libertà e alla giustizia. Questi sono
diritti universali e inalienabili».
PARIGI, 4. «La logica della riduzione dell’utilizzo dei combustibili è
semplicissima: se è sbagliato distruggere il clima, è anche sbagliato
trarre profitto da questa pratica distruttiva». È quanto ha affermato il
reverendo Henrik Grap, in rappresentanza del World Council of
Churches (Wcc), durante una conferenza internazionale sulle riduzioni
dell’utilizzo dei combustibili fossili
che si è svolta lo scorso 1° settembre
a Parigi. L’incontro, organizzato
dallo stesso organismo ecumenico,
ha avviato il dibattito sulla necessità
di adeguare gli stili di vita e le logiche commerciali alla difesa dell’ambiente, in vista della conferenza sul
clima delle Nazioni Unite (Cop21)
che si terrà a dicembre nella capitale
francese.
Durante l’incontro, quindi, i relatori — fra questi, oltre a Grap, Stephen Heintz, presidente della fondazione Rockefeller Brothers e James Randerson del quotidiano «The
Guardian» — hanno focalizzato la
loro attenzione sulla crescente tendenza a ridurre gli investimenti nel
settore dei combustibili fossili, accusati di produrre emissioni nocive e
indirettamente gli effetti più negativi del cambiamento climatico. Alla
base del discorso c’è la consapevolezza che se tutte le riserve di combustibile fossile globale conosciute
venissero bruciate, le emissioni prodotte superebbero del triplo il livello massimo che l’atmosfera potrebbe
sopportare, provocando aumenti catastrofici del livello del mare, eventi
meteorologici estremi e la rovina
della pesca e dell’agricoltura. Secondo i partecipanti alla conferenza,
per la sicurezza dell’umanità, questi
combustibili fossili devono rimanere
dove sono: nel terreno.
Nel corso del suo intervento
Grap ha spiegato che «i Paesi più
Musulmani e cristiani protagonisti di un progetto in Niger
Per convivere in pace
NIAMEY, 4. Ripristinare un clima di
serenità, prevenendo nuove violenze
e rafforzando la coesistenza pacifica: è l’obiettivo del progetto «Rivalorizzazione del vivere insieme», finanziato in Niger dall’Unione europea e gestito dall’organizzazione
non governativa statunitense Care
International. Ne sono protagoniste
le comunità musulmana (preponderante nel Paese africano) e cristiana
che — otto mesi dopo le tragiche
manifestazioni seguite alla pubblicazione delle caricature di Maometto su «Charlie Hebdo» (dieci morti, quarantacinque fra chiese, hotel,
negozi, scuole cristiane saccheggiati
e incendiati nella capitale Niamey e
a Zinder) — cercano faticosamente
di riannodare i fili del dialogo in
una nazione attraversata da correnti
radicali islamiste e vittima degli assalti dei miliziani di Boko Haram.
Da allora, ha spiegato alla France
Presse il responsabile del progetto,
Ibrahim Niandou, sono stati organizzati incontri nelle otto regioni in
cui è suddiviso il Niger, ai quali
hanno partecipato «tutte le tendenze, comprese quelle più radicali.
Cristiani e musulmani si confrontano per migliorare la convivenza pacifica, secondo le raccomandazioni
della Bibbia e del Corano». Un
centinaio fra ulema, pastori, teologi
musulmani e cristiani erano presenti
la settimana scorsa a un forum
sull’argomento. Si tratta, aggiunge
Boubacar Seydou Touré, rappresentante dell’Associazione islamica del
Niger, di un dialogo urgente dopo i
fatti di gennaio: «Le crisi sono
spesso generate da leader religiosi
attraverso i loro sermoni infuocati
nelle moschee o nelle chiese», accusa, mentre, per il pastore Baradjé
Diagou, gli scontri di gennaio
«hanno accentuato la necessità di
vivere insieme nella coesione. Se
noi viviamo ognuno per sé, è molto
difficile che possiamo comprenderci».
Giorni fa, evangelici e cattolici si
sono riuniti a uno stesso tavolo per
discutere a loro volta di coesistenza
pacifica. «Accettare di ascoltarci per
progredire insieme è molto importante», ha osservato Boureima Kimso, presidente dell’Alleanza delle
chiese e delle missioni evangeliche
del Niger. Dopo le violenze, «i cristiani sono avvisati: per poter sopravvivere, sono obbligati a rivedere
le proprie posizioni e a nuove condizioni». È così avvenuto che molti
cristiani hanno guadagnato la simpatia di musulmani che prima mal
li sopportavano, ricevendo anche
una mano nella ricostruzione delle
chiese distrutte.
poveri dei Tropici stanno in particolare già sperimentando i disastri dei
cambiamenti climatici, e le Chiese
membro del World Council of
Churches in tutto il mondo lo possono testimoniare. Ma le prolungate
siccità e gli altri eventi meteorologici con effetti sempre più gravi stanno colpendo anche altre aree del
mondo».
«Il 1° settembre — ha spiegato
Grap, che appartiene alla Church of
Sweden — è l'inizio del tempo per la
creazione, un tempo di preghiera
per la creazione. L’intera famiglia
ecumenica delle comunità di fede si
riunisce per pregare e agire per un
mondo più sostenibile. E anche il
digiuno per la giornata per il clima
unisce le comunità di fede nel mondo per un’azione efficace riguardo
al cambiamento climatico. Queste —
ha precisato ancora — non sono
azioni senza senso. Pregare e digiunare ci spingono a intraprendere
azioni concrete. Le nostre preghiere
e le azioni devono essere coerenti,
dobbiamo agire con i fatti».
Secondo Grap, «la riduzione
dell’utilizzo dei combustibili fossili
è una questione etica e in base a criteri etici il World Council of Churches ha deciso di non investire in
questo settore. Le Chiese membro
hanno fatto lo stesso; così come abbiamo fatto nelle nostre comunità in
Svezia. E da quando c’è una riduzione dell’utilizzo dei combustibili
fossili — ha spiegato il reverendo —
le rendite dei nostri investimenti sono cresciute. Per il terzo anno consecutivo, il rendimento del nostro
portafoglio totale ha superato i rendimenti del portafoglio di riferimento».
Grap non ha dubbi nell’affermare
che «il cambiamento climatico è la
sfida principale per il nostro tempo»: occorre invece favorire «un vero cambiamento per evitare un futuro che sarà difficile per le nuove generazioni. La giustizia e l’equità sono parte della visione spirituale di
cui sono portatrici le comunità di
fede. La speranza è un primo passo
per camminare sulla via della trasformazione». Grap ha continuato
citando sant’Agostino: «La speranza
ha due belle figlie. I loro nomi — ha
detto il rappresentante del Wcc —
sono la rabbia e il coraggio; la rabbia per il modo in cui stanno le cose, e il coraggio di fare in modo che
non restino come sono».
Le fedi — ha concluso — possono
essere «portatrici della speranza e
delle sue belle figlie, la rabbia, nei
confronti delle disuguaglianze e
dell’avidità che distrugge la terra e
le opportunità per le generazioni future, e il coraggio per dare inizio alle trasformazioni necessarie per un
mondo più giusto ed equo».
Tawadros
II
agli egiziani
L’acqua del Nilo
deve essere usata
con saggezza
IL CAIRO, 4. Un invito all’uso razionale delle acque del Nilo è
stato rivolto giovedì a tutti gli
egiziani da Tawadros II, patriarca
ortodosso copto. Il richiamo a
razionalizzare lo sfruttamento
delle risorse idriche del fiume più
lungo del mondo è arrivato nell’omelia pronunciata dal patriarca
durante la liturgia che ha celebrato nella chiesa della Vergine
Maria e di Sant’Atanasio, nel
sobborgo cairota di Heliopolis.
Nella stessa occasione — riferisce
Fides — Tawadros II ha dato la
notizia di un protocollo di collaborazione sottoscritto dalla Chiesa copta e dalla Al Ahram Foundation finalizzato alla creazione
di un sito web dedicato alla civiltà egiziana, in cui verrà messo in
risalto anche il contributo fornito
dai cristiani.
Il patriarca punta a favorire
anche la maturazione di una
nuova sensibilità ecclesiale rispetto ai rischi connessi con lo sfruttamento non pianificato e disordinato delle risorse del territorio.
In questa prospettiva, alcuni sacerdoti seguiranno dei corsi di
formazione presso gli enti pubblici che gestiscono i sistemi di
irrigazione alimentati dal Nilo,
per poi contribuire a sensibilizzare la popolazione, anche attraverso le omelie e le catechesi, sulla
necessità di salvaguardare dal
punto di vista ecologico la grande arteria fluviale. In diverse occasioni il patriarca ortodosso
copto ha sottolineato che la vita
del Paese dipende dalla “buona
salute” del Nilo, dove lungo il
percorso è concentrata una buona parte della popolazione di città e villaggi.
L’OSSERVATORE ROMANO
sabato 5 settembre 2015
pagina 7
Messa a Santa Marta
Sparlare degli altri è terrorismo, è come
buttare una bomba per distruggere le persone e poi darsela a gambe e mettere in
salvo se stessi. Il cristiano per essere santo
deve invece portare sempre «pace e riconciliazione» e per non cedere alla tentazione della chiacchiera deve arrivare anche a
mordersi la lingua: sentirà male, avvertirà
il gonfiore ma almeno non avrà scatenato
qualche piccola o grande guerra. Sono i
consigli suggeriti da Papa Francesco, insieme a un esame di coscienza, nella messa celebrata venerdì 4 settembre nella cappella della Casa Santa Marta.
Mordersi la lingua
Paolo, ha fatto subito notare il Papa,
«nel brano della Lettera ai colossesi (1, 1520) dà come la carta d’identità di Gesù».
Insomma, domanda l’apostolo, «questo
Cristo, che noi abbiamo visto che era fra
noi, chi è?». E dà questa risposta: «Lui è
il primo, è il primogenito di Dio, è il primogenito di tutta la creazione. Tutte le
cose sono state create per mezzo di Lui e
L’ottico Alessandro Spiezia racconta l’incontro con il Papa
Due da lontano e uno da vicino
Sorpresa nel centro di Roma per l’arrivo del
Papa che si è presentato, alle ore 19 di giovedì
3 settembre, in un negozio di ottica di via del
Babuino, a due passi da piazza del Popolo,
per cambiare le lenti degli occhiali. Giunto in
automobile, Francesco è entrato mentre
all’esterno si è formato immediatamente un capannello di persone che hanno voluto testimoniargli tutto il loro affetto. Il gesto del Pontefice ha suscitato una grande eco sui media e
sui social di tutto il mondo, specialmente negli
Stati Uniti d’America dove è molto forte l’attesa per l’ormai imminente viaggio apostolico.
Ad accogliere Francesco sono stati il proprietario Alessandro Spiezia, settantunenne, e
il figlio Luca. Il Papa — ci ha riferito l’ottico
che abbiamo incontrato nel suo laboratorio —
non gli ha chiesto «una montatura nuova, ma
solo di rifare le lenti, due per vedere da lontano e una da vicino, per non spendere troppo,
se non il dovuto». Insomma, «il Papa si è
comportato come un cliente qualunque, facendosi misurare la vista e spiegando nei dettagli
di cosa avesse bisogno». Per Spiezia, in realtà,
non è stata una sorpresa vera e propria: infatti
ha già avuto modo di preparare gli occhiali
per Francesco, «Proprio il paio che indossa
ora» precisa.
E di servire, in passato, anche Benedetto
XVI, fornendogliene due paia («ma in quelle
occasioni ricevetti la richiesta dal Vaticano e
inviai le montature»). L’ottico ha avuto occasione di incontrare personalmente anche Giovanni Paolo II in Vaticano. «Fu — ricorda —
quando, in qualità di presidente dell’Associazione italiana ottici, richiesi nel giorno di santa Lucia, nostra patrona, un’udienza col Pontefice», poco prima della sua morte. A Papa
Wojtyła però Spiezia non dovette mai preparare lenti: «Lui era ambliope, con un occhio vedeva da vicino e con l’altro da lontano, in pratica con l’uno compensava le debolezze dell’altro, e quindi non ne aveva bisogno».
Di recente monsignor Guillermo Javier Karcher aveva portato all’ottico un paio di occhiali di Francesco «per una riparazione del costo
di cinque euro». Il Papa ha voluto assolutamente pagare e quella banconota — confida
l’artigiano mostrandocela orgoglioso — «da allora la conservo gelosamente nel portafogli»,
così come nel negozio il posto d’onore è riservato alle fotografie che lo ritraggono insieme
ai tre Pontefici. Ma «l’emozione di vedere entrare il Papa nel mio piccolo locale è stata indescrivibile» aggiunge Spiezia. Un incontro
che ha fatto il giro del mondo: «Ho ricevuto
telefonate da ovunque, anche una mail di felicitazioni dall’Australia». Dopo circa quaranta
minuti, Francesco è uscito e, intrattenutosi per
un po’ con le persone accorse per salutarlo,
sempre in auto è rientrato in Vaticano.
in vista di Lui. Egli è prima di tutte le cose e tutte le cose in Lui sussistono» e cioè
«hanno consistenza».
Ai colossesi Paolo «presenta Gesù-Dio:
Gesù è Dio, è più grande. Prima di tutto
è il primo, è il Creatore. Primogenito di
tutti perché sia Lui ad avere il primato su
tutte le cose». E continua su questa linea
tanto che, ha detto il Pontefice, «sembra
un po’ esagerato, no?» quando «parla di
chi è Gesù». Sì, «questo Gesù, il Padre lo
ha inviato perché “per mezzo di Lui e in
vista di Lui siano riconciliate tutte le cose,
avendo pacificato con il sangue della sua
croce”».
Rilanciando le affermazioni di Paolo
per spiegare «qual è stata l’opera di Gesù», Francesco ha suggerito due parole
chiave: riconciliare e pacificare. Gesù, ci
dice Paolo, «ha riconciliato l’umanità con
Dio dopo il peccato e ha pacificato, ha
fatto la pace con Dio». E così «la pace è
opera di Gesù, del suo sangue, del suo lavoro, di quell’abbassarsi per obbedire fino
alla morte e morte di croce».
Dunque, ha proseguito Francesco, «Gesù ci ha pacificato e ci ha riconciliato».
Tanto che «quando noi parliamo di pace
o di riconciliazione — piccole paci, piccole
riconciliazioni — dobbiamo pensare alla
grande pace e alla grande riconciliazione,
quella che ha fatto Gesù». Con la consapevolezza che «senza di Lui non è possibile la pace; senza di Lui non è possibile
la riconciliazione». E questo discorso vale
ovviamente anche per «noi che tutti i
giorni sentiamo notizie di guerre, di
odio». Di più, «anche nelle famiglie si litiga». E così «il nostro compito è andare
su quella strada» per essere «uomini e
donne di pace, uomini e donne di riconciliazione».
A questo punto il Papa ha suggerito un
vero e proprio esame di coscienza: «Ci farà bene domandarci: io semino pace? Per
esempio, con la mia lingua, semino pace o
semino zizzania?». E ha aggiunto:
«Quante volte abbiamo sentito dire di
una persona che ha una lingua di serpente, perché fa sempre quello che ha fatto il
Con le cellule parrocchiali di evangelizzazione
Un nuovo metodo di annuncio
di MARIA NOEMI GRANDI
L’aereo toccò il suolo della Florida in tarda mattinata. Sei persone
lo attendevano in aeroporto. Tre
di queste vollero raccontargli la
gioia della loro conversione. «Un
convertito si ascolta sempre» pensò, senza poter però nascondere,
in cuor suo, dello stupore. Strano
sentir parlare di conversioni in
uomini già vicini a Dio. Quando
gli fu chiesto di testimoniare la
propria conversione, ricordò la
sua prima comunione,
la sua vocazione, la
consacrazione sacerdotale, la nomina a parroco, ma non risultò
purtroppo «né convinto né convincente».
Perché quella situazione di disagio? «Perché
in quel momento iniziava la mia conversione alla nuova evangelizzazione», dice oggi
don Pier Giorgio Perini — don Pigi, come
ormai tutti lo chiamano — classe 1929, della
parrocchia di Sant’Eustorgio a Milano.
Era il 6 novembre
è la
1986. Ore 13. Miami.
Due anni dopo, nel
1988, grazie a quel viaggio in Florida, fonda il sistema delle cellule
parrocchiali di evangelizzazione.
A distanza di ventisette anni,
giungono oggi a una fase meravigliosamente importante della loro
missione. A termine del Riconoscimentum ad experimentum iniziato
nel 2009, lo scorso 15 aprile, il
Pontificio Consiglio per i laici le
ha approvate in via definitiva. E
il 5 settembre le cellule di tutto il
mondo sono attese in udienza da
Papa Francesco.
«È il riconoscimento dell’incidenza pastorale del metodo sulla
Chiesa parrocchiale. Mi aspetto
una carica e una giustificazione.
Si tratta della Chiesa, che esiste
per evangelizzare. Il 5 settembre è
una tappa importante del cammino verso la nuova evangelizzazione»: queste le parole del fondatore. Il riconoscimento e l’incontro
con il Pontefice rendono, infatti,
questo sistema parte integrante
della Chiesa esaltandone e legittimandone l’operato.
Una cellula è un gruppo di laici che si incontra in una casa privata una volta ogni settimana.
Una cura particolare è rivolta agli
ultimi arrivati, per i quali si è di-
numero di partecipanti, si moltiplicano per diffondersi nel mondo. I Paesi in cui le cellule esistono sono molti: Italia, Slovenia,
Brasile, Colombia, Spagna, Repubblica Ceca, solo per citarne
alcuni. Il Vangelo si annuncia fino in Cina.
Preoccupanti dolci sonni sono
invece quelli di molte nostre parrocchie sopite e inermi. Su questo
don Pigi è irremovibile: «È un
sonno letale che porta alla morte
perché man mano si vede ridurre
il numero di partecipanti, di coloro che sono attivi, innamorati di
Cristo. Ci si adagia.
C’è sempre del bene e
molta buona fede nei
pastori e nelle parrocchie ma, di fatto, non
c’è crescita. Non è un
tempo comune quello
in cui viviamo, ma un
tempo drammatico in
cui si perde l’identità
cristiana in modo spaventoso. Non si ha più
il desiderio di conoscere Gesù Cristo e di innamorarsi di lui.»
Innamorarsi. Di un
«I piccoli ruscelli fanno i grandi fiumi»:
amore coraggioso, rivignetta dedicata alle cellule parrocchiali dalla Croix
schioso ma al tempo
stesso fertile, sicuro e
sposti a intraprendere dal princi- salvifico. Galleggiamo in acqua
pio il cammino compiuto, alla che ristagna e non nutre alberi
scoperta di Gesù come Signore che potrebbero fiorire mentre
della vita.
dall’altra parte del mondo le radiÈ il ringraziamento ad aprire ci della cristianità si rinvigoriscogli incontri. Se non si sanno co- no tra le crepe di una terra arida.
gliere i doni di Dio e per questo
Le parrocchie devono dunque
ringraziare, come scoprire il suo recuperare il motivo fondante delamore? Cosa ha fatto Gesù per
la loro esistenza. L’evangelizzame ma, soprattutto, cosa ho fatto
zione è il fine primo della religioio per lui? Questo è il cardine del
momento successivo, la condivi- ne cristiana e di conseguenza la
sione di ciò che ognuno ha nel Chiesa non può dirsi tale se non
cuore. In ultimo le preghiere d’in- evangelizza. Senza timori, perché
gli ostacoli si dissolvono nella
tercessione.
Niente è più caratteristico di profondità delle intenzioni.
«Andate in tutto il mondo, anuna cellula biologica per definire
questa realtà. Le cellule nascono, nunciate il Vangelo a ogni creatucrescono e, raggiunto un certo ra» (Marco, 16, 15).
Affinché si realizzi questa presa
di coscienza, fondamentale è il
ruolo dei preti. Le parole del fondatore sono spilli di verità. Ridestano. «Per prepararsi alla nuova
evangelizzazione — sostiene — bisogna innanzitutto soffrire perché
la situazione ci sta scappando
dalle mani e, perciò, essere allerta
e insoddisfatti del proprio essere
sacerdoti. L’opera sacerdotale è
quella che prepara evangelizzatori
laici». Questo è l’obiettivo delle
cellule, della nuova evangelizzazione. Così definita perché nuova
nei metodi, nell’applicazione e,
soprattutto, nell’entusiasmo. Interrogarsi, avvertendo l’ansia del
tempo che sfugge, è determinante: «Cosa fa ognuno di noi per
un mondo cristianizzato?» non
smette di ripetere il fondatore
delle cellule.
La linfa vitale è l’affidamento
completo al Signore, l’umiltà di
riconoscersi inadempienti per
comprendere quanto lunga sia ancora la strada e accarezzare così i
cuori di coloro i quali non conoscono Dio o se lo sono dimenticato, affinché scorgano nella sua
Parola lo spiraglio di luce per rivoluzionare la loro vita.
Chi si è lasciato scottare dalla
fiamma che arde negli occhi di
questo anziano testimone non potrà dimenticare la forza di una vita donata al Signore, riposta nelle
sue mani per evangelizzare, l’infusione d’amore, la carica a mettersi
in cammino. Che il riconoscimento del Pontificio Consiglio per i
laici e l’incontro del 5 settembre
con Papa Francesco rappresentino
il gioioso inizio di una lunga e
ricca storia.
L’invito è, dunque, a riscoprire
l’evangelizzazione per essere veri
cristiani, attivi in prima persona.
Laici intimamente evangelizzatori.
Cristiani capaci di accendere nel
mondo il fuoco della fede così come quando la Chiesa, perseguitata ma innamorata, ha mosso i
suoi primi passi.
serpente con Adamo ed Eva, ha distrutto
la pace». Ma questo, ha messo in guardia
il Pontefice, «è un male, questa è una malattia nella nostra Chiesa: seminare la divisione, seminare l’odio, non seminare la pace». Francesco ha proseguito nella sua
proposta di esame di coscienza con una
domanda che, ha detto, sarebbe bene porsi tutti i giorni: «Io oggi ho seminato pace
o ho seminato zizzania?». E a nulla vale
provare a giustificarsi dicendo «ma alle
volte si devono dire le cose perché quello
e quella…». In realtà, ha rimarcato, «con
questo atteggiamento tu cosa semini?».
Tornando, così, al passo paolino il Papa
ha ripetuto che Gesù, «il Primo, è venuto
da noi per pacificare, per riconciliare». Di
conseguenza, «se una persona, durante la
sua vita, non fa altra cosa che riconciliare
e pacificare la si può canonizzare: quella
persona è santa!». Però, ha avvertito,
«dobbiamo crescere in questo, dobbiamo
convertirci: mai una parola che sia per dividere, mai, mai una parola che porti
guerra, piccole guerre, mai le chiacchiere».
E sulle chiacchiere il Papa ha voluto soffermarsi chiedendo «cosa sono» veramente. Apparentemente, ha spiegato, sono
«niente»: consistono nel «dire una parolina contro un altro o dire una storia» del
tipo: «Questo ha fatto…». Ma in realtà
non è così. «Fare chiacchiere è terrorismo
— ha affermato Francesco — perché quello
che chiacchiera è come un terrorista che
butta la bomba e se ne va, distrugge: con
la lingua distrugge, non fa la pace. Ma è
furbo, eh? Non è un terrorista suicida, no,
no, lui si custodisce bene!».
Riprendendo, di nuovo, il brano della
Lettera di Paolo, il Pontefice ha ricordato
che in Gesù sono «riconciliate tutte le cose, avendo pacificato con il sangue della
sua croce». Dunque «il prezzo è alto» ha
affermato. E così «ogni volta che mi viene
in bocca di dire una cosa che è seminare
zizzania e divisione e sparlare di un altro»
il consiglio giusto è «mordersi la lingua!».
E ha insistito: «Io vi assicuro che se voi
fate questo esercizio di mordervi la lingua
invece di seminare zizzania, i primi tempi
si gonfierà così la lingua, ferita, perché il
diavolo ci aiuta a questo perché è il suo
lavoro, è il suo mestiere: dividere!».
Prima di continuare questo sacrificio —
«questo è il sacrificio di riconciliazione,
qui viene il Signore e noi facciamo lo stesso che nel Calvario» — Francesco ha così
pregato: «Signore tu hai dato la tua vita,
dammi la grazia di pacificare, di riconciliare. Tu hai versato il tuo sangue, ma che
non m’importi che si gonfi un po’ la lingua se mi mordo prima di sparlare di altri». E ha concluso invitando a ringraziare
il Signore per averci riconciliato col Padre,
perdonato i peccati, dandoci «la possibilità di avere pace nelle nostre anime».
A Gerona la beatificazione di tre martiri della persecuzione del 1936
Fino alla fine
accanto ai malati
rispondere eroicamenTre martiri, tre vittime
te al pressante appello
della sanguinosa perdel Signore insieme a
secuzione religiosa che
suor Josefa Monrabal
colpì la Spagna nelMontaner che venne
l’estate 1936. L’azione
uccisa insieme a lei a
preziosa di Fidela OlXeresa.
ler, Josefa Monrabal
Josefa era molto più
Mantaner e Facunda
giovane, essendo nata
Margenat — che sabaa Gandía il 3 giugno
to 5 settembre il cardi1901. Pia e caritatevole
nale Angelo Amato,
con le sue compagne e
prefetto della Congrecon i poveri, sin da
gazione delle cause
piccola aveva sentito il
dei santi, beatifica in
desiderio di consacrarrappresentanza di Pasi, ma la situazione fapa Francesco nella
miliare glielo aveva
cattedrale di Gerona —
Fidela Oller
inizialmente impedito.
si è dipanata nelle corEntrata nell’istituto di
sie degli ospedali e
san Giuseppe di Geronelle case dove malati
na nel 1928, facendo
e sofferenti cercavano
la prima professione
assistenza e conforto.
nel 1931 e quella perSuore
dell’istituto
petua nel 1934. Era
delle religiose di san
stata inviata nella coGiuseppe di Gerona,
munità di Villareal
erano tutte e tre infer(Castellón)
con
il
miere, completamente
compito di prestare
coinvolte nella missioassistenza a quei malane del loro istituto.
ti che servì sempre
Esso infatti — oggi
con amore e dediziopresente in Europa,
ne. Per lei ogni cosa
Africa, America del
aveva un grande valosud e America centrale
re. Ripeteva: «Vorrei
— fu fondato nel 1870
essere martire, offrire
dalla venerabile María
la mia vita per la conGay Tibau con il cariJosefa Monrabal Montaner
versione dei peccatori
sma di dare assistenza
se questa è la volontà
agli infermi, alleviare
di Dio». All’inizio
il loro dolore e semidella persecuzione, nel
nare la pace nei loro
1936, insieme alle sue
cuori smarriti, ponenconsorelle
venne
do l’opera sotto la
espulsa dalla comunità
protezione di san Giue trovò rifugio nella
seppe.
casa del fratello a
Fidela Oller era naGandía. Lì fu arrestata
ta l’11 settembre 1869 a
e condotta al martirio
Bañolas. Aveva sentito
insieme a madre Fidela vocazione a 17 anni
la. Aveva soli 35 anni.
e nel 1882 aveva emesFacunda Margenat
so i voti tra le suore di
era invece originaria
san Giuseppe di Gerodi Gerona: vi era nata
na. Prestò servizio in
il 6 settembre 1876.
vari ospedali prendenEntrata
nell’istituto
dosi cura dei malati
nel 1894, aveva fatto la
con grande amore e
professione nel 1896.
carità. Fu superiora in
Facunda Margenat
Era stata in diverse
varie comunità, in parcomunità, sempre al
ticolare fu fondatrice e
superiora della comunità di Gandía (Va- servizio dei malati, distinguendosi come
lencia), distinguendosi per il dono del una sorella esemplare, piena di amore e
consiglio, per la sua vicinanza alla gente, compassione. Durante la persecuzione,
per una vita contrassegnata da pietà, nel 1936 si trovava a Barcellona: vedendo
prudenza e semplicità. Un vero esempio il disordine che regnava, disse alle consoper le consorelle.
relle: «Desidero offrire la mia vita per la
Perseguitata come superiora e come
conversione di costoro che perseguitano
religiosa, venne arrestata e torturata lungo la strada di Xeresa la notte del 29 Dio e la Chiesa». Quando la sua comuagosto 1936, mentre tutta la comunità era nità fu espulsa, lei si rifugiò nella casa di
stata condotta in carcere a Valencia dove un malato che stava assistendo. Fu però
le consorelle vennero arrestate. Quella di denunciata dalla portiera dello stabile e
suor Fidela è stata una vita in prepara- lì la cercarono per condurla al martirio,
zione continua che la portò a 67 anni, a che avvenne tra il 26 e il 27 agosto.
L’OSSERVATORE ROMANO
pagina 8
Nel centenario della facoltà teologica dell’Università cattolica argentina il Papa ricorda il Vaticano
sabato 5 settembre 2015
II
Il fiume vivo
E sottolinea il collegamento dinamico fra tradizione ricevuta e realtà concreta
In occasione del congresso internazionale
di teologia, svoltosi dal 1° al 3 settembre
a Buenos Aires nel centenario della facoltà
teologica dell’Università cattolica argentina
(Uca), Papa Francesco ha inviato
ai partecipanti il messaggio che pubblichiamo
di seguito in una traduzione dallo spagnolo.
Mi rallegro di potermi collegare con voi
in questo evento così importante per la
nostra Chiesa in Argentina. Grazie per
avermi dato l’opportunità di unirmi a questa azione di grazie nel celebrare i cento
anni della Facoltà di Teologia della Uca,
vincolandoli ai cinquanta anni del Concilio Vaticano II.
Vi siete riuniti per tre giorni facendo di
questa festa un’occasione per ricordare,
per recuperare la memoria del passaggio
di Dio per la nostra vita ecclesiale e fare
di tale passaggio un motivo di ringraziamento. La memoria ci permette di ricordare da dove veniamo e, così facendo, ci
uniamo ai tanti che hanno tessuto questa
storia, questa vita ecclesiale nelle sue molteplici vicissitudini, e certo non sono state
poche. Memoria che ci spinge a scoprire,
nel mezzo del cammino, che il Popolo fedele di Dio non è stato solo. Questo po-
La sede della facoltà di teologia dell’Uca
polo in cammino ha sempre potuto contare sullo Spirito che lo guidava, lo sosteneva, lo spronava dal di dentro e dal di fuori. Questa memoria grata che oggi diventa
riflessione, anima il nostro cuore. Ravviva
la nostra speranza per suscitare oggi la
domanda che i nostri padri si sono fatti
ieri: Chiesa, che cosa dici di te stessa?
Non celebriamo e riflettiamo due eventi
minori, siamo bensì di fronte a due momenti di forte coscienza ecclesiale. Cento
anni della Facoltà di teologia è celebrare il
processo di maturazione di una Chiesa
particolare. È celebrare la vita, la storia, la
fede del Popolo di Dio che cammina in
questa terra e che ha cercato di “intendersi” e di “dirsi” a partire dalle proprie coordinate. È celebrare i cento anni di una fede che cerca di riflettere di fronte alle peculiarità del Popolo di Dio che vive, crede, spera e ama in terra argentina. Una fede che cerca di radicarsi, d’incarnarsi, di
rappresentarsi, d’interpretarsi di fronte alla
vita del suo popolo e non al margine.
Mi sembra di grande importanza e di
lucida accentuazione unire questo evento
ai cinquanta anni dalla chiusura del Vaticano II. Non esiste una Chiesa particolare
isolata, che possa dirsi sola, come se pretendesse di essere padrona e unica interprete della realtà e dell’azione dello Spirito. Non esiste una comunità che abbia il
monopolio dell’interpretazione o dell’inculturazione. Come, all’opposto, non esiste una Chiesa Universale che dia le spalle, ignori, si disinteressi della realtà locale.
La cattolicità esige, chiede questa polarità
tensionale tra il particolare e l’universale,
tra l’uno e il multiplo, tra il semplice e il
complesso. Annichilire questa tensione va
contro la vita dello Spirito. Ogni tentativo, ogni ricerca di ridurre la comunicazione, di rompere il rapporto tra la Tradizione ricevuta e la realtà concreta, mette in
pericolo la fede del Popolo di Dio. Considerare insignificante una delle due istanze
è metterci in un labirinto che non sarà
portatore di vita per la nostra gente. Rompere questa comunicazione ci porterà facilmente a fare della nostra visione, della
nostra teologia un’ideologia. Sono quindi
lieto che la celebrazione dei 100 anni della
Facoltà di Teologia vada di pari passo con
la celebrazione dei cinquanta anni del
Concilio. Il locale e l’universale si incontrano per nutrirsi, per stimolarsi nel carattere profetico di cui ogni Facoltà di Teologia è portatrice. Ricordiamo le parole di
Papa Giovanni a un mese dall’inizio del
Concilio: «Per la prima volta nella storia i
Padri del Concilio apparterranno, in realtà, a tutti i popoli e nazioni, e ciascuno
recherà contributo di intelligenza e di
esperienza, a guarire e a sanare le cicatrici
dei due conflitti, che hanno profondamente mutato il volto di tutti i paesi» (Discorsi-Messaggi-Colloqui, AAS 54, 1962, 520528).
Poi sottolinea che uno dei principali
contributi dei Paesi in via di sviluppo in
quel contesto universale sarebbe stata la
loro visione della Chiesa, e continua così:
«La Chiesa si presenta quale è, e vuol essere, come la Chiesa di tutti, e particolarmente la Chiesa dei poveri».
C’è un’immagine proposta da Benedetto XVI che mi piace molto. Riferendosi alla tradizione della Chiesa afferma che
«non è trasmissione di cose o di parole,
una collezione di cose morte. La Tradizione è il fiume vivo che ci collega alle origini, il fiume vivo nel quale sempre le origini sono presenti» (Udienza generale, 26
aprile 2006). Questo fiume irriga diverse
terre, alimenta diverse geografie, facendo
germogliare il meglio di quella terra, il
meglio di quella cultura. In questo modo,
il Vangelo continua a incarnarsi in tutti gli angoli
del mondo, in maniera
sempre nuova (cfr. Evangelii gaudium, n. 115).
Tutto ciò ci porta a riflettere sul fatto che non si
è cristiani allo stesso modo
nell’Argentina di oggi e
nell’Argentina di cento anni fa. In India e in Canada
non si è cristiani allo stesso
modo che a Roma. Pertanto uno dei compiti principali del teologo è di discernere, di riflettere: che cosa
significa essere cristiani oggi? “nel qui e ora”; come
riesce quel fiume delle origini a irrigare oggi queste
terre e a rendersi visibile e
vivibile? Come rendere viva la giusta espressione di
san Vincenzo di Lerino:
«ut annis consolidetur, dilatetur tempore,
sublimetur aetate» (Commonitorio primo,
cap. XXIII).
In questa Argentina, di fronte alle molteplici sfide e situazioni che ci presentano
la multidiversità esistente, l’interculturalità
e gli effetti di una globalizzazione uniformante che relativizza la dignità delle persone facendone un bene di scambio; in
questa Argentina, ci viene chiesto di ripensare come il cristianesimo si fa carne,
come il fiume vivo del Vangelo continua a
rendersi presente per saziare la sete del
nostro popolo.
E per affrontare questa sfida, dobbiamo
superare due possibili tentazioni: condannare tutto, coniando la già nota frase «il
passato è sempre migliore» e rifugiandoci
in conservatorismi o fondamentalismi; oppure, al contrario, consacrare tutto, negando autorità a tutto ciò che non ha “sapore
di novità”, relativizzando tutta la saggezza
coniata dal ricco patrimonio ecclesiale.
Per superare queste tentazioni, il cammino è la riflessione, il discernimento,
prendere molto sul serio la Tradizione ecclesiale e molto sul serio la realtà, facendole dialogare.
In questo contesto penso che lo studio
della teologia assuma grandissima importanza. Un servizio insostituibile nella vita
ecclesiale.
Non sono poche le volte in cui si genera un’opposizione tra teologia e pastorale,
come se fossero due realtà opposte, separate, che non hanno nulla a che vedere
l’una con l’altra. Non sono poche le volte
in cui identifichiamo dottrinale con conservatore, retrogrado; e, all’opposto, pensiamo la pastorale a partire dall’adattamento, la riduzione, l’accomodamento.
Come se non avessero nulla a che vedere
tra loro. In tal modo si genera una falsa
opposizione tra i cosiddetti “pastoralisti” e
gli “accademicisti”, quelli che stanno dalla
parte del popolo e quelli che stanno dalla
parte della dottrina. Si genera una falsa
opposizione tra la teologia e la pastorale;
tra la riflessione credente e la vita credente; la vita, allora, non ha spazio per la riflessione e la riflessione non trova spazio
nella vita. I grandi padri della Chiesa, Ireneo, Agostino, Basilio, Ambrogio, solo per
citarne alcuni, furono grandi teologi perché furono grandi pastori.
Uno dei contributi principali del Concilio Vaticano II è stato proprio quello di
cercare di superare questo divorzio tra teologia e pastorale, tra fede e vita. Oso dire
che ha rivoluzionato in una certa misura
lo statuto della teologia, il modo di fare e
di pensare credente.
Non posso dimenticare le parole di
Giovanni XXIII nel discorso di apertura
del Concilio quando disse: «Una cosa è la
sostanza dell’antica dottrina del Deposito
della Fede, e altra è la forma con cui essa
è presentata».
Dobbiamo affrontare il lavoro, l’arduo
lavoro di distinguere il messaggio di Vita
dalla sua forma di trasmissione, dai suoi
elementi culturali in cui un tempo è stato
codificato. Una teologia «risponde agli interrogativi di un tempo e non lo fa mai in
altro modo che negli stessi termini, poiché
sono quelli che vivono e parlano gli uomini di una società» (Michel de Certeau, La
debilidad del creer, 51).
Non fare questo esercizio di discernimento porta in un modo o nell’altro a tradire il contenuto del messaggio. Fa sì che
la Buona Novella smetta di essere nuova e
soprattutto buona, divenendo una parola
sterile, svuotata di tutta la sua forza creatrice, risanante e risuscitante, e mettendo
così in pericolo la fede delle persone del
nostro tempo. La mancanza di questo
esercizio teologico ecclesiale è una mutilazione della missione che siamo invitati a
realizzare. La dottrina non è un sistema
chiuso, privo di dinamiche capaci di generare domande, dubbi, interrogativi. All’opposto, la dottrina cristiana ha volto, ha
corpo, ha carne, si chiama Gesù Cristo ed
è la sua Vita a venire offerta di generazione in generazione a tutti gli uomini e in
Fondata
da Benedetto XV
Era il 23 dicembre 1915 quando, su
richiesta dei vescovi argentini, per
volontà di Papa Benedetto XV
vennero erette le facoltà di teologia
e di filosofia presso il seminario
maggiore di Buenos Aires. Durante i
primi quarant’anni di attività
l’insegnamento fu affidato alla
Compagnia di Gesù, dopodiché
passò al clero dell’arcidiocesi.
Nel frattempo, sempre per iniziativa
dell’episcopato, nel 1958 venne
fondata la Universidad Católica
Argentina Santa María de los
Buenos Aires per rispondere — si
legge nella dichiarazione dell’epoca
— al «mandato di Gesù Cristo, di
insegnare a tutte le genti le verità e i
precetti contenuti nella divina
rivelazione». Due anni dopo, per
decreto della Santa Sede, l’università
fu riconosciuta come
pontificia e la facoltà di
teologia venne a essa
integrata come la prima
delle sue facoltà. Come ha
sottolineato il decano della
facoltà, Fernando José
Ortega, l’acquisizione di
un profilo accademico ha
garantito un decisivo
passo in avanti nel
rapporto tra teologia,
società e mondo della
cultura. Uno stile che si è
ulteriormente rinnovato
dopo il concilio Vaticano
II dal quale i professori
della facoltà hanno tratto
le linee guida per il loro
impegno successivo.
Proprio all’assise conciliare
fa diretto riferimento il
convegno organizzato in
Giacomo
occasione del centenario
della facoltà e che si è
svolto all’università dal 1° al 3
settembre: «El Concilio Vaticano II.
Memoria, presente y perspectivas».
Oltre agli interventi del rettore,
arcivescovo Víctor Manuel
Fernández, e del decano, relatori
principali sono stati il cardinale
Walter Kasper, e gli studiosi gesuiti
Mario França Miranda e Santiago
Madrigal.
Attualmente l’insegnamento nella
facoltà è affidato a novantasei
professori organizzati in venticinque
cattedre. Centoventisei sono gli
studenti che, nell’anno accademico,
stanno seguendo un corso di laurea.
Isabella Ducrot, «Vaticano II» (2012)
tutti i luoghi. Custodire la dottrina esige
fedeltà a quanto ricevuto e — al tempo
stesso — che si tenga conto dell’interlocutore, del destinatario, che lo si conosca e
lo si ami.
Questo incontro tra dottrina e pastorale
non è opzionale, è costitutivo di una teologia che intende essere ecclesiale.
Le domande del nostro popolo, le sue
pene, le sue battaglie, i suoi sogni, le sue
lotte, le sue preoccupazioni, possiedono
un valore ermeneutico che non possiamo
ignorare se vogliamo prendere sul serio il
principio dell’incarnazione. Le sue domande ci aiutano a domandarci, i suoi interrogativi c’interrogano. Tutto ciò ci aiuta
ad approfondire il mistero della Parola di
Dio, Parola che esige e chiede che si dialoghi, che si entri in comunione. Non possiamo quindi ignorare la nostra gente al
momento di fare teologia. Il Nostro Dio
ha scelto questo cammino. Egli si è incarnato in questo mondo, attraversato da
conflitti, ingiustizie, violenze; attraversato
da speranze e sogni. Pertanto, non ci resta
altro luogo dove cercarlo che questo mondo concreto, questa Argentina concreta,
nelle sue strade, nei suoi quartieri, nella
sua gente. Lì Egli sta già salvando.
Le nostre formulazioni di fede sono nate nel dialogo, nell’incontro, nel confronto, nel contatto con le diverse culture, comunità, nazioni, situazioni che richiedevano una maggiore riflessione di fronte a
quanto non esplicitato prima. Perciò gli
eventi pastorali hanno un valore considerevole. E le nostre formulazioni di fede
sono espressione di una vita vissuta e ponderata ecclesialmente.
In un cristiano c’è qualcosa di sospetto
quando smette di ammettere il bisogno di
essere criticato da altri interlocutori. Le
persone e le loro diverse conflittualità, le
periferie, non sono opzionali, bensì necessarie per una maggiore comprensione della fede. Perciò è importante chiedersi: A
chi stiamo pensando quando facciamo
teologia? Quali persone abbiamo davanti?
Senza questo incontro con la famiglia, con
Manzù, «Papa Giovanni con camauro» (1960)
il Popolo di Dio, la teologia corre il grande rischio di diventare ideologia. Non ci
dimentichiamo, lo Spirito Santo nel popolo orante è il soggetto della teologia. Una
teologia che non nasce nel suo seno ha
l’olezzo di una proposta che può essere
bella, ma non reale.
Questo ci rivela la sfida insita nella vocazione del teologo, quanto sia stimolante
lo studio della teologia e la grande responsabilità che si ha nel realizzarlo. Al
riguardo mi permetto di chiarire tre tratti
dell’identità del teologo:
1. Il teologo è in prima istanza un figlio
del suo popolo. Non può e non vuole disin-
teressarsi dei suoi. Conosce la sua gente,
la sua lingua, le sue radici, le sue storie, la
sua tradizione. È l’uomo che impara a valorizzare ciò che ha ricevuto, come segno
della presenza di Dio, poiché sa che la fede non gli appartiene. L’ha ricevuta gratuitamente dalla Tradizione della Chiesa,
grazie alla testimonianza, alla catechesi e
alla generosità di tanti. Questo lo porta a
riconoscere che il Popolo credente nel
quale è nato ha un significato teologico
che non può ignorare. Sa di essere “innestato” in una coscienza ecclesiale e s’immerge in quelle acque.
2. Il teologo è un credente. Il teologo è
qualcuno che ha fatto esperienza di Gesù
Cristo e ha scoperto che senza di Lui non
può più vivere. Sa che Dio si rende presente, come parola, come silenzio, come
ferita, come guarigione, come morte e come resurrezione. Il teologo è colui che sa
che la sua vita è segnata da questa impronta, da questo marchio, che ha lasciato
aperte la sua sete, la sua ansia, la sua curiosità, la sua esistenza. Il teologo è colui
che sa di non poter vivere senza l’oggetto/soggetto del suo amore e consacra la
sua vita per poterlo condividere con i suoi
fratelli. Non è teologo chi non può dire:
«non posso vivere senza Cristo», e pertanto, chi non vuole farlo cerca di sviluppare
in se stesso gli stessi sentimenti del Figlio.
3. Il teologo è un profeta. Una delle grandi sfide poste nel mondo contemporaneo
non è solo la facilità con cui si può prescindere da Dio ma, socialmente, si è fatto
anche un ulteriore passo. La crisi attuale
s’incentra sull’incapacità che hanno le persone di credere in qualsiasi altra cosa oltre
se stesse. La coscienza individuale è diventata la misura di tutte le cose. Ciò genera
una crepa nelle identità personali e sociali.
Questa nuova realtà provoca tutto un processo di alienazione dovuto alla carenza di
passato e pertanto di futuro. Per questo il
teologo è il profeta, perché mantiene vivi
la coscienza del passato e l’invito che viene dal futuro. È l’uomo capace di denunciare ogni forma alienante perché intuisce,
riflette nel fiume della Tradizione che ha
ricevuto dalla Chiesa, la speranza alla
quale siamo chiamati. E a partire da questo sguardo, invita a risvegliare la coscienza sopita. Non è l’uomo che si conforma,
che si abitua. Al contrario, è l’uomo attento a tutto quello che può danneggiare e
distruggere i suoi.
Perciò, c’è un solo modo di fare teologia: in ginocchio. Non è solamente un atto pietoso di preghiera per poi pensare la
teologia. Si tratta di una realtà dinamica
tra pensiero e preghiera. Una teologia in
ginocchio è osare pensare pregando e pregare pensando. Comporta un gioco, tra il
passato e il presente, tra il presente e il futuro. Tra il già e il non ancora. È una reciprocità tra la Pasqua e tante vite non realizzate che si domandano: Dov’è Dio?
È santità di pensiero e lucidità orante.
È, soprattutto, umiltà che ci consente di
porre il nostro cuore, la nostra mente in
sintonia con il “Deus semper maior”.
Non dobbiamo aver paura di metterci
in ginocchio davanti all’altare della riflessione e di farlo con «le gioie e le speranze, le tristezze e le angosce degli uomini
d’oggi, dei poveri soprattutto e di tutti coloro che soffrono» (Gaudium et spes, n. 1),
dinanzi allo sguardo di Colui che fa nuove tutte le cose (cfr. Ap 21, 5).
Allora c’inseriremo sempre più in quel
popolo credente che profetizza, popolo
credente che annuncia la bellezza del Vangelo, popolo credente che «non maledice,
bensì è accogliente e sa realizzare la vita
benedicendola. Cerca così una corrispondenza creatrice con i problemi della nostra
epoca» (Olivier Clement, Un ensayo de
lectura ortodoxa de la Constitución, 651).
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